Alex Prager
Come in un film: la fotografa delle eroine noir
Un universo iperrealistico quello tratteggiato da Prager. Ambientato su una spiaggia, nella sala d’attesa di un aeroporto o in un teatro, poco importa. Sono scene di massa in cui ogni personaggio, spesso femminile, emerge distintamente dalla folla con la sua storia personale, trasformando ogni scatto in un frame horror in technicolor.
di Micol De Pas


In bilico tra esuberanza, bon ton e denuncia sociale, Alex Prager è una fotografa punk. Nel senso che questo aggettivo (o qualifica?) può avere oggi, alcune decadi dopo che spille da balia, creste colorate e pantaloni tartan hanno solcato le strade del Pianeta a partire da quelle di Londra. Perché del punk sopravvive, almeno come concetto filosofico, la sua musica: violenta, sincera, forse adolescenziale, certamente dirompente. Come la fotografia di Prager. È lei che disattende le aspettative del pubblico, come il suono di una chitarra distorta dal palco, attraverso immagini stranianti di quotidianità solo apparente. La routine è il nemico principale, oggetto del suo sguardo e del suo immaginario terribile e terrificante, trasformato in technicolor.
Prager usa gli strumenti propri del mondo che critica per assicurarsi l’efficacia della propria denuncia: gli interessati certamente capiranno, dal momento che parlano lo stesso linguaggio. Doppio sguardo, doppio sogno: il gioco degli specchi funziona bene. Così Hitchcock riaffiora in uno scatto patinato di una donna ricoperta di uccelli, insieme a Martin Parr che definisce la banalità del quotidiano, Cindy Sherman che ne rende eterno l’attimo e David Lynch che lo sa mostrare spaventoso. Ecco, questi sono gli ingredienti che Alex Prager, regina di una mixology inedita, sa trasformare in cocktail speciali. Ogni stampa, infatti, cattura lo sguardo del pubblico che è costretto a rallentare, guardare, osservare quel reale recitato, quella dimensione tra palco e realtà così fasulla da sembrare terribilmente vera. Chi guarda è costretto a esercitare il pensiero per individuare gli ingredienti della sapiente miscela in cui è rimasto irretito.
La fotografa americana, infatti, costruisce la scena, inserendo i suoi personaggi all’interno di situazioni reali, facendoli recitare in contesti quotidiani, per esasperarli. D’altra parte, questa sembra proprio essere la sua realtà, il suo mondo.


Prima di diventare fotografa, lavorava in un call center, faceva la commessa in un negozio e distribuiva volantini. Poi, esasperata dall’immobilismo sterile di un luogo di lavoro senza prospettive, senza ingaggi dal punto di vista creativo, ha cominciato a guardarsi intorno. In realtà, a parte sentire il bisogno di trovare una strada in cui incanalare la sua energia debordante, non aveva idea di cosa fare da grande. La cura? Visitare mostre e musei e andare ai concerti a caccia d’ispirazione. La trova: gli scatti di William Eggleston la seducono completamente. Era la sua prima volta davanti a un uso artistico della fotografia. Nel giro di una settimana si compra una macchina fotografica usata, l’occorrente per mettere in piedi una camera oscura e dà inizio all’avventura. I suoi miti sono Diane Arbus, Henri Cartier-Bresson e Weegee, ma è molto interessata allo stile di Martin Parr e Bruce Gilden, che rielabora nei suoi lavori realizzati per strada. Allestisce piccole mostre underground dentro lavanderie o parrucchieri e osserva la reazione delle persone davanti a quegli scatti. Funziona. Si accorge che le foto che colpiscono maggiormente sono quelle recitate, tendenzialmente le più divertenti. E così decide di spingersi in quella direzione. Legge, studia, scatta, prova… e poi mixa tutto. Così inizia la sperimentazione di quei cocktail che possiamo degustare oggi. Ah, dimenticavo, siamo a Los Angeles. E non è un dettaglio trascurabile. La città del cinema è un luogo del possibile, specie se si tratta di espressione artistica. In ogni caso, L.A. entra nei suoi scatti, come sfondo brutto ma straordinariamente bello, insieme ad altri elementi strettamente personali: le sue esperienze, il suo disagio (e il tentativo di risolverlo), le immagini viste sui media, la nostalgia per un tempo più sicuro, come ha dichiarato in una recente intervista.

