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Unknown Unknowns. 23° Esposizione Internazionale della Triennale di Milano

Fino all’11 di dicembre l’istituzione milanese, che si appresta al giro di boa del centenario, ospita la nuova edizione della rassegna triennale realizzata in collaborazione con il Bureau International des Expositions e il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Per dirla in numeri ci sono tre grandi mostre tematiche (a cura di Ersilia Vaudo Scarpetta, Marco Sammicheli e quella ideata da Hervé Chandès); 400 lavori di artisti, designer e architetti provenienti da più di 40 paesi; 23 partecipazioni nazionali (per puro caso come il numero della manifestazione) tra cui si segnala la presenza di ben sei padiglioni nazionali africani a loro volta avvalorati da quattro installazioni site specific realizzate da Francis Kéré (l’architetto originario del Burkina Faso che quest’anno ha ricevuto il Pritzker Architecture Prize) e una miriade di progetti speciali a latere tra cui spiccano le due pubblicazioni curate da Emanuele Coccia, il public program di Damiano Gullì e la Game Collection Vol. 2 (con ben cinque videogiochi, dal carattere assai personale, progettati da game designer internazionali). A mettere insieme tutti gli interventi, troviamo il tema succoso dell’ignoto, ben richiamato dal titolo della mostra Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, trattato senza celebrazioni e senza cadere in facili antinomie kantiane, come a primo avviso si sarebbe portati a pensare. Se il fatto che la mostra tematica principale sia curata dall’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta, dal 1991 all’Esa (Agenzia Spaziale Europea), potrebbe indurvi a pensare che ci troviamo davanti a un nuovo capitolo del recente trend internazionale che mira a ricomporre il perduto dialogo tra arte e scienza, be’ vi siete sbagliati. Ragion di più per dedicare del tempo a questo percorso inedito che vuole rompere con tutte le facili dicotomie con cui siamo abituati a catalogare il mondo: luce/buio, bene/male; umano/non umano. 

triennale di milano

björn dahlem, the still expanding universe.

triennale di milano

yuri suzuki, sounds of earth: chapter 3

Niente più classificazioni, bensì la rinuncia a ogni pretesa di onniscienza.

Un inno all’ignoto, al mistero di tutto quello che non solo non conosciamo, ma persino di ciò di cui ignoriamo l’esistenza, una sfida quindi a rimettersi in gioco come specie. A fare gli onori di casa, all’ingresso della principale mostra tematica, l’installazione site specific del sound designer giapponese Yuri Suzuki, Sounds of the Earth: Chapter 3: sorta di mappamondo sonoro che ci rimanda i suoni del mondo liberandoci dal preconcetto di doverli necessariamente associare a luoghi fisici ben definiti. Un mondo di suoni inviati dai visitatori che hanno interagito con il lavoro, in loco o da remoto, e che vengono via via accostati per similitudine grazie a un complesso meccanismo di autoapprendimento, così da creare connessioni dirette tra luoghi e utenti lontanissimi. Molte delle riflessioni in mostra mirano a scardinare il nostro antropocentrismo a favore di una visione che parta da molto più lontano, cercando d’insegnarci a far penetrare nella nostra quotidianità il fascino dello sconosciuto, non più come un antagonista da temere e decriptare ma come un possibile alleato da abbracciare e da cui farsi sorprendere. 

triennale di milano

skidmore, owings & merrill (som), decalogo per un’architettura per lo spazio: dieci riflessioni sul design per un futuro interplanetario.

julijonas urbonas, when accelerators turn into sweaters.

Eccoci allora davanti al primo vero designer universale: la forza di gravità. Con fare non provocatorio, ma quasi come una constatazione evidente, la legge fisica di gravitazione universale formulata da Isaac Newton nel 1687 (per intenderci, la storia della mela caduta dall’albero), diventa l’artigiano capace di modellare l’universo alla ricerca della perfezione sferica. Una forza non da contrastare ma di cui ammirarne l’operato, come nel lavoro dell’artista messicano Bosco Sodi con le sue sfere d’argilla Perfect Bodies, o cui abbandonarsi come per le sculture Chutes Libres di Benoît Pype, che rimandano alla pratica divinatoria della “molibdomanzia”, ossia l’arte di predire il futuro grazie alle forme del piombo fuso.  Mollati gli ormeggi della razionalità, impariamo a fidarci dell’ignoto e a pensarlo, o immaginarlo fino al punto di progettare strumenti per viverlo e per abitarlo. E così una grande sezione parla di vecchie idee per abitare nello spazio, molte delle quali quasi avveniristiche o strumenti capaci di potenziare i sensi umani rendendoci abili, come squali e tartarughe, di trovare sempre il Nord grazie a un sesto (o settimo?) senso: il magnetorecettore. Ma anche un invito a essere più permeabili a un mondo non umano, in cui in futuro potremmo essere riparati grazie a cellule di pelle umana e metilcellulosa estratte da piante e alghe; o avremo ossa aggiustate con cellule staminali umane stampate in 3D con cemento osseo al fosfato di calcio. Ma non si confonda l’invito ad accettare il mistero con una rassegnazione all’inconsapevolezza: il filo di Arianna per uscire dal guazzabuglio terrestre c’è ed è rappresentato dalla matematica, ragione per cui rispolverate le equazioni e spremete le meningi perché l’ignoto ci invita al dialogo.

3 domande a Ersilia Vaudo. Astrofisica e Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).
TGL: Come vede la percezione del tempo rispetto al futuro?
E.V.: Il tempo è uno dei punti centrali della mostra a partire dalle listening chambers del fisico Carlo Rovelli, che ci introducono ai suoi misteri. Ci sono poi suggestioni controintuitive, che ci raccontano un tempo deterministico, inevitabile e non sconosciuto: quello delle leggi della fisica. Con la missione Gaia dell’Esa si è arrivati a mappare 2 mld di stelle nella galassia, per conoscere tutti i cieli che ci saranno davanti a noi per i prossimi… un milione e seicentomila anni. Un’idea di futuro, quindi, né incerto né sconosciuto, ma che è sotto le leggi inaggirabili della fisica di cui va accettata la finitudine. Si pensi allo scontro tra Andromeda e la Galassia previsto tra quattro miliardi di anni…
TGL: Due parole su arte e scienza?
E.V.: Il tema dell’incontro tra arte e scienza ha i suoi limiti. Io preferisco parlare di quella creatività nella scienza che non deve essere spiegata, ma che attiva emozioni e suggestioni.
C’è, infatti, un lato misterioso nella scienza che presenta una dimensione dello sconosciuto e che, in mostra, invita il visitatore a lasciarsi andare. Abbiamo quindi evitato tutte le trappole polarizzanti per raccontare come il tema dello sconosciuto sia principalmente lo sguardo che poniamo sulle cose, che non può essere mai univoco, ma anzi deve essere una molteplicità di sguardi sfumati.
TGL: Qual è il suo numero preferito?
E.V.: Il π (pi greco), cui è stata dedicata la giornata mondiale del 14 marzo. Ha una intensità straordinaria e misteriosa legata alla ricerca delle cifre (infinite) dopo la virgola. Scrisse Carl Sagan nel romanzo Contact, da cui l’omonimo film, “una civiltà intelligente si è confrontata con il π”.
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