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Annie Ernaux. Una donna, una vita, la nostra storia

I nostri ricordi non raccontano solo la nostra storia. Vecchie foto e filmini delle vacanze estive sono anche vive testimonianze della storia sociale di un Paese. Di questo, Annie Ernaux e suo figlio David Ernaux-Briot sono fermamente convinti, al punto da dirigere insieme un documentario, Les Années Super-8, realizzato con filmati inediti dell’archivio di famiglia girati a partire dal 1972 – quando il marito Philippe Ernaux acquistò una cinepresa Super 8 per riprendere la quotidianità del suo matrimonio e dei loro due figli –, video oggi condivisi con il pubblico di tutto il mondo. Un’opera al tempo stesso familiare e universale fatta di immagini inedite in movimento accompagnate da una suadente voce narrante, assemblate in un ordine cronologico che fissa sullo schermo non solo il passare di anni e stagioni per Annie e per la sua famiglia, ma anche mezzo secolo di storia sociale francese, intercettando i cambiamenti e i tumulti degli Anni 70, e tutto ciò che, in quegli anni, cambiò nel mondo. L’orizzonte si allarga poi grazie ai filmati realizzati durante i viaggi: nel Cile di Salvador Allende nel 1972, nell’Albania comunista di Enver Hoxha nel 1975, nella Russia sovietica, nella Spagna sopravvissuta alla dittatura franchista, in Inghilterra, in Germania e in Marocco. «Rivedendo i nostri film in Super 8 girati tra il 1972 e il 1981, mi è venuto in mente che questi costituivano non solo un archivio di famiglia, ma anche una testimonianza degli hobby, dello stile di vita e delle aspirazioni di una classe sociale, nel decennio successivo al 1968. Volevo integrare queste immagini mute in una storia che attraversasse l’intimo, il sociale e la storia, per rendere sensibile il gusto e il colore di questi anni», esordisce l’autrice e regista al suo debutto, smentendo forse in parte le sue stesse parole de Gli anni, probabilmente il suo romanzo più famoso: “Tutte le immagini scompariranno” (Gallimard 2008, trad. it. L’orma editore 2015). E questo desiderio di raccontare, tramandare, condividere ciò che fa parte della memoria personale permea l’intera opera della scrittrice premio Nobel, esigenza che nasce dalla consapevolezza di quanto la memoria sia oggi «poco considerata, e troppo volatile. I ricordi sono un enorme serbatoio di immagini, che appartiene a ognuno di noi e che però, sempre insieme a noi, scompare. La funzione dell’arte diventa quindi proprio quella di custodire queste immagini, impedirne l’oblio. Se penso a quando ero impegnata nella stesura de Gli anni, rammento come fossero vividi i ricordi delle persone legati alle due guerre mondiali, o i racconti fatti loro da chi, parenti o conoscenti, vi aveva preso parte. C’era una costante trasmissione dei ricordi attraverso la narrazione e la condivisione», fenomeno che l’autrice vede oggi verificarsi con frequenza sempre minore. Paradossalmente, l’epoca in cui ci raccontiamo di più e condividiamo di più del nostro quotidiano, è quella in cui la memoria sta svanendo. Una sparizione dovuta proprio «a quella velocità diffusa di comunicazione, trasporto e vita in cui diventa difficile fermarsi e pensare al passato e in cui la costante instabilità rende penoso immaginare il futuro, che spaventa».

Annie Ernaux

©LesFillmsPelleas

La letteratura come memoria, quindi, ma anche come mezzo per affrontare le emozioni da essa scaturite. Non sono mai mancate, negli anni, le riflessioni sulle sue umili origini e sul sentimento di vergogna che ha accompagnato l’autrice per tutta la vita. Dopo un’infanzia e una giovinezza trascorse a Yvetot, dove i genitori, prima operai e poi piccoli commercianti, gestivano un bar-drogheria, e dopo gli studi all’Université de Rouen, avvenne infatti il passaggio all’universo borghese, e il contrasto stridente con le sue origini divenne la miccia da cui esplosero un attivismo e una lotta per i diritti sociali mai sopiti. Tuttavia, la scrittura è stata ciò che le ha permesso di «dare un nome a questo sentimento di inadeguatezza», e la pratica l’ha aiutata a viverlo e svilupparlo, rendendolo parte della sua personalità ma non cifra determinante della sua consapevolezza. Proprio nel suo quarto libro, Il posto (pubblicato in Francia nel 1983, in Italia nel 2014), Annie Ernaux narra la vita del padre, dalla fanciullezza alla morte, ripercorrendo le tappe più importanti della sua storia lavorativa, da contadino e operaio a gestore, con la moglie, di un piccolo bar-drogheria nell’entroterra francese. Qui, alla storia dei genitori, la scrittrice affianca per la prima volta il racconto di come gli studi e la successiva professione di insegnante di liceo le abbiano consentito di affermarsi socialmente, a scapito però di un progressivo allontanamento dalla sua famiglia e dalla sua classe sociale d’origine. L’assimilazione dei valori della classe borghese e il conseguente disprezzo delle sue origini operaie la porteranno a maturare un senso di colpa per il tradimento compiuto con l’acquisizione del nuovo status sociale. Questo senso di colpa, secondo l’autrice,  è alla base della sua scrittura, interpretabile come una sorta di “risarcimento” nei confronti delle persone oggetto del suo tradimento per aver abbandonato la classe dominata (operaia) per unirsi alla classe dominante (borghese). La cultura come ascensore sociale, quindi, ieri e forse anche oggi, sebbene in misura minore. Impossibile non chiederselo, se in un simile contesto di scrittura che non è solo professione, ma anche processo di memoria ed elaborazione della stessa, per il premio Nobel sia davvero uno stimolo o un freno. «Me lo chiedo io stessa, ma non è passato abbastanza tempo perché io abbia la risposta. Lo vedo come una responsabilità, non solo come scrittrice ma anche come donna e come cittadina europea. Scrivere, però, non è mai stato un mestiere, per me. Avevo una professione, quella di insegnante», sottolinea, aggiungendo che al momento la sua priorità è quella di potersi dedicare al suo ultimo lavoro. E all’attivismo eco-femminista, termine di cui lei stessa ribadisce l’importanza.

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a scrittura non cessa di essere, per l’autrice, un atto politico, nonché uno strumento per sensibilizzare il lettore su temi che vanno dall’ingiustizia sociale all’esperienza di genere in una società patriarcale, passando per l’ambientalismo. Uno dei passaggi-chiave del documentario la vede protagonista con la frase «non eravamo consapevoli delle conseguenze sull’ambiente di quello che stavamo vivendo», e oggi ribadisce con costanza quanto il degrado ambientale sia stato «causato da decenni di consumo senza freni. Mi definisce eco-femminista perché quello che gli uomini hanno fatto per secoli alla terra è ciò che è stato fatto anche al corpo delle donne e alla loro individualità». Sulla scelta, solo apparentemente poco femminista, di tenere il cognome da sposata, nonostante la separazione da Philippe Ernaux avvenga all’inizio degli Anni 80, la scrittrice ha sempre sottolineato come non sia stata, di fatto, una scelta. «All’epoca si prendeva il cognome del marito, e anzi, è sempre stato difficile ritrovare persone del passato, come le vecchie compagne di scuola, proprio perché avevano assunto i cognomi dei mariti. Ho pubblicato il primo romanzo, Gli armadi vuoti, nel 1974, il secondo, Ce qu’ils disent ou rien (inedito in Italia, ndr) nel 1977, il terzo, La donna gelata, nel 1981: ero ancora sposata, e legalmente ero Annie Ernaux. Avrei dovuto cambiare, in seguito? Forse. Ma scegliere consapevolmente di tenerlo è stato di fatto un modo per appropriarmi appieno della mia narrazione», aggiunge. E questo bisogno di riappropriazione della propria narrazione, e dei propri diritti, è oggi più che mai al centro dell’attivismo femminista, in un momento storico in cui anche in Paesi che si definiscono progressisti e democratici avanza inesorabile lo spettro della negazione al pieno controllo sulla propria persona. «I diritti delle donne oggi sono molto attaccati in Polonia o negli Stati Uniti, ma non solo. La situazione varia da Paese a Paese», specifica, a cominciare proprio dal delicato tema dell’interruzione di gravidanza, al centro anche di L’evento (pubblicato in Francia nel 2000, in Italia nel 2019, ndr), uno dei suoi lavori più celebri, e sul quale si è sempre espressa senza mezzi termini. È degli ultimi tempi il suo intervento in cui ribadisce la necessità che questo diritto sia sancito dalla Costituzione europea, e come «la possibilità che le donne hanno di avere dei figli e disporre del proprio corpo sia stata da sempre fonte di desiderio di controllo da parte degli uomini. Questo desiderio che le donne restassero a casa, si occupassero dei figli e che non potessero disporre di sé stesse, resta ancora oggi un qualcosa ben presente nelle menti di alcuni. La lotta per potersi riappropriare del controllo sul proprio corpo va portata avanti quotidianamente», conclude, sottolineando l’importanza di garantire alle donne pari diritti, in ogni parte del mondo. A questo si accompagna il desiderio di un’Europa senza muri, dalle frontiere aperte, capace di accogliere chi quei diritti se li vede negare, perché «è più che mai necessario che l’Europa non sia una fortezza inespugnabile, ma un luogo che accoglie e protegge. Quello che vedo adesso è un mondo stanco, che vede l’Europa scivolare sempre di più verso l’estrema destra e una situazione climatica disastrosa. In questo scenario non so dove potremmo trovare la speranza, ma dobbiamo riuscirci», conclude. E dall’autrice che si è fatta voce narrante e cassa di risonanza delle storie autentiche delle minoranze, quelle che lei chiama petits gens, non ci aspetteremmo nulla di diverso

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