
Che cinema questa moda
C’è qualcosa di inevitabilmente grandioso nell’idea stessa del cinema: uno schermo gigante su cui proiettare le piccolezze e le grandezze dell’essere umano – dal sublime al ridicolo – e tutto ciò che sta nel mezzo. Ma c’è un elemento in particolare che rende il cinema così visceralmente connesso alla nostra vita quotidiana: gli abiti dei personaggi. Segnali visivi che comunicano qualcosa di ben più profondo di un semplice senso estetico. Grazie ai costumi, i film non solo raccontano storie, ma diventano anche passerelle intellettuali, riti collettivi attraverso cui una società osserva, riflette e a volte ride di sé stessa. Non si limitano a mostrare la moda; la reinventano, la sovvertono, la trasformano in un discorso socioculturale. Perché, come sosteneva Roland Barthes, la moda è un “sistema di segni”; cos’è il cinema, se non un codice visivo per decifrare i gusti, le paure e i desideri di un’epoca? Ogni decennio ha i suoi capi simbolici, le sue forme riconoscibili, impronte del proprio spirito, il celebrato Zeitgeist. E alcuni film, più di altri, sono cartine al tornasole perfette di quell’epoca di cui si vergognano segretamente, mescolando l’estetica con riflessioni degne di un cocktail filosofico, vestendo i propri personaggi con abiti che non sono solo belli, ma significativi. Da sempre legati, moda e cinema sono due mondi che dialogano tra loro, s’ispirano a vicenda, e se lo fanno nel modo giusto, riescono a raccontare chi siamo meglio di qualsiasi testo di sociologia, costruendo narrazioni visive che esplorano la società come farebbe un trattato filosofico, ma con l’immediatezza delle immagini. Vediamo come una selezione di pellicole – che non trattano di moda, ma abbiamo scelto in modo consapevolmente partigiano e fatalmente non esaustivo – abbiano raccontato le tappe fondamentali dello stile attraverso decenni di cambiamenti collettivi, istituzionali e intellettuali.

Blow-Up, Michelangelo Antonioni – 1966.

The Warriors (I guerrieri della notte), Walter Hill – 1979.
Minimalismo e vuoto esistenziale
Volete quattro film che utilizzano la moda per esplorare il concetto di vuoto e disillusione in un mondo che si scopre sempre più privo di senso. Eccoli serviti. In Blow-Up, Michelangelo Antonioni immerge il protagonista in un’estetica essenziale e chic, dove ogni trench, ogni minigonna, ogni dolcevita e ogni giacca di velluto suggeriscono un disincanto verso la società. La Londra Anni 60, la pur celebrata “swinging London”, è rappresentata tutta forma e nessuna sostanza; una città di abiti dalle linee pulite, eleganti, ma dalle persone sorprendentemente vuote, un luogo dove ovunque domina un’apparenza che è la sola sua sostanza. Vestirsi è un linguaggio muto che rappresenta perfettamente il paradosso del modernismo: tutto è bello, levigato, ordinato. Ma non c’è niente dietro. Gli abiti non sono segni di personalità, bensì maschere che celano il vuoto di una società ossessionata dal proprio riflesso, prigioniera di una falsa bellezza che non dà spazio a emozioni atentiche. Ne L’Odio (La Heine, il titolo originale in francese) di Mathieu Kassovitz, invece, il minimalismo urbano si trasforma in simbolo di frustrazione e rabbia sociale. Gli abiti dei personaggi (felpe con cappuccio, tute sgangherate e cappellini da baseball ostentati come corone di un’epoca spezzata) sono più che semplici vestiti; sono uniformi di resistenza, simboli di una generazione tagliata fuori dalla prosperità e dalla cultura di Parigi vera e propria. Questo è streetwear come commento sociale, che riflette una società fratturata da disuguaglianze, tensioni razziali e alienazione sociale senza via di fuga. Al contrario, i costumi di The Warriors (in italiano I guerrieri della notte) sono un festival di colori eccessivi, un carnevale punk con aspirazioni da opera. Ogni gang ha un look distintivo, che si tratti delle divise da baseball delle Baseball Furies, delle tute abbinate degli Hi-Hats o dei gilet di pelle sul torso nudo dei “Warriors”. Gli abiti, in questo paesaggio urbano distopico, sono più di un ornamento: sono emblemi di appartenenza, segnali ritualizzati di una tribù. Emir Kusturica, in Underground, porta tutto questo all’assurdo: nei sotterranei della Jugoslavia, i personaggi vivono bloccati in un kitsch postbellico che è prigione tanto quanto rifugio. L’abbigliamento, in parte vintage, in parte surplus militare, in parte costume da circo, diventa allora una rappresentazione visiva della separazione dalla realtà. Qui la moda è carnevalesca, un commento ironico sia sull’identità personale sia su quella nazionale che riflette la critica surrealista di Kusturica alla storia stessa. C’è un’ironia affascinante nel modo in cui i costumi sembrano parodiare il concetto stesso di orgoglio identitario, tra nostalgia e capacità di ridere di sè. Questi quattro film non sono solo capsule del tempo, ma testi ricchi, ognuno dei quali usa gli abiti per porre domande urgenti su identità e significato.

La haine (L’odio), Mathieu Kassovitz – 1995.

Underground, Emir Kusturica – 1995.
Camp, Queerness e celebrazioni delle differenze
Negli Anni 70 e 90, il mondo comincia a fare i conti con il concetto di identità di genere e lo fa con la delicatezza di un elefante in una cristalleria. The Rocky Horror Picture Show irrompe con un’estetica camp che grida “guardatemi!” a ogni lustrino. Il Dr. Frank-N-Furter, sorta di scienziato pazzo in versione glitterata, sfida ogni categoria binaria con corsetti, tacchi a spillo e trucco esagerato. Un manifesto vivente. Come diceva Susan Sontag, “il camp è amore per l’innaturale, per l’artificiale”, e Rocky Horror ne è l’incarnazione: una celebrazione della libertà di essere tutto e niente, di incarnare il maschile e il femminile in un’esplosione di paillettes e strass. Anticipa di decenni la fluidità di genere e il diritto di esistere fuori da ogni etichetta, regalando alla storia il mantra “Don’t dream it, be it”. Insomma, non sognate di essere chi volete: vestitevi e fatelo vedere anche alla zia tradizionalista! Abbigliarsi diventa un modo per interrogare – o provocare – una società che vorrebbe tutti incasellati. E poi c’è Priscilla, la regina del deserto, in cui la comunità Lgbtqia+ conquista la scena con un pizzico di barocco e una spruzzata di pacchianità. Tre drag queen, vestite come alberi di Natale, sfilano su una passerella improvvisata attraversando l’outback australiano. È un road movie che trasforma il deserto in palcoscenico, un’oasi queer in mezzo al nulla. Qui la moda è una dichiarazione di guerra: un modo per dire “non mi confondo e di certo non sparisco”. È una sublime forma di “vaffanculo” visivo alla società che preferirebbe che questi uomini si mimetizzassero o, meglio sparissero. Ma è Cercasi Susan disperatamente (1985) a rappresentare un passaggio epocale per la moda e la condizione femminile, con un approccio tanto sfacciato quanto ironico. Madonna (Susan) non interpreta soltanto una ribelle, ma l’archetipo della libertà femminile. Susan è una musa caotica, un’amica che t’insegna a fumare, a scappare dalla noia e vestirti come se l’individualismo fosse un diritto sartoriale. La sua estetica – giacche di paillettes dorate, guanti a rete, capelli arruffati e un pizzico di trasandato calcolato – ha dato alle donne Anni 80 un nuovo vocabolario visivo: non più soltanto carriera e tailleur, ma avventura urbana che sfida le regole. Le croci non sono accessori, ma simboli di fede in se stessa. Per la moda fu quello che Rocky Horror fu per il camp: ribaltamento delle aspettative, stile punk nel mainstream, così che anche i sogni disordinati, ora, meritino un’ottima colonna sonora.

La haine (L’odio), Mathieu Kassovitz – 1995.

Underground, Emir Kusturica – 1995.
Fascino e pericolosità del potere
Sharon Stone in Basic Instinct trasforma ogni abito in un’arma di seduzione e dominio, sconvolgendo e imprimendosi nella memoria di milioni di maschi in cerca di esperienze limite. Il suo personaggio, Catherine Tramell, è una femme fatale che ha sostituito il rossetto con il coltello affilato dello stile. Sotto quella glaciale perfezione sartoriale, con blazer eleganti e trench bianchi da paura, c’è una femminilità pericolosa e impenetrabile. Dimenticate il “thriller erotico”: questo è un saggio visivo sul potere, il desiderio e lo sguardo maschile, il tutto orchestrato da una donna che sa esattamente come usare il guardaroba come una trappola perfetta. Il guardaroba di Catherine è uno strumento centrale in questa decostruzione: abiti bianchi immacolati, blazer eleganti e trench con una precisione quasi spaventosa. Il suo guardaroba è minimalista e clinico, progettato per intimidire. In Kill Bill, invece, Uma Thurman ci regala un’icona sartoriale con la sua tuta gialla, un omaggio a Bruce Lee e al cinema di arti marziali. La tuta non è solo un costume: è una seconda pelle, un’armatura, l’abito ideale per trasformarsi in una mitologica guerriera samurai. Il giallo non è casuale – è un avvertimento, come i colori vivaci degli animali velenosi. Tarantino sa bene che in questo caso l’abbigliamento è un’arma, affilata e mortale quanto la sua katana. Non è solo un outfit; è un messaggio di vendetta, cucito tra un colpo di kung fu e l’altro. E poi arriva The Dreamers di Bertolucci, dove la moda diventa simbolo di potere intellettuale e seduzione nostalgica. I protagonisti, avvolti in abiti vintage da Nouvelle Vague, sembrano dei rivoluzionari in prova generale. Isabelle e i suoi amici indossano cappotti fluenti e righe bretoni come se fossero divise da combattimento, ma con un’aria un po’ più chic e parigina. L’eleganza mozzafiato di Anna Karina e Jean Seberg è presente in ogni loro mossa, come se si fossero calati in un film degli Anni 60 per giocare a fare i ribelli, senza però rendersi conto fino in fondo di cosa voglia dire davvero. Il loro stile è uno scudo ideologico: un travestimento per ribellarsi contro il mondo che disdegnano, anche se, in fondo, stanno ancora cercando di capire chi sono davvero. Insomma, giocano a fare i rivoluzionari con il guardaroba altrui, portando un’ingenuità tragica e affascinante.

Young Frankestein, ( Frankenstein Junior), Mel Brooks – 1974.

Poor Things (Povere Creature), Yorgos Lanthimos – 2023.
Il mostro come riflessione storica e sociale
Due film che condividono un tema centrale: il “mostro” come figura di rottura, di ribellione contro le norme imposte, di esplorazione della personalità in forme nuove e grottesche. Entrambi sono ambientati in contesti che richiamano il XIX secolo e il suo rigido moralismo, ma al tempo stesso rispecchiano profondamente le rivoluzioni culturali e sociali del loro tempo di produzione. In Frankenstein Junior, Mel Brooks prende il mito gotico del mostro di Frankenstein e lo rilegge in chiave parodica, in pieno spirito controculturale. Il film riflette questo pensiero giocando con l’idea di “normalità” e trasformando il mostro in una figura amabile, innocente, tenera che ridicolizza il concetto di “civiltà” e decoro. Cinquant’anni dopo, Povera creature! esplora un tema simile ma con una prospettiva femminista e contemporanea. Ambientato in un ’800 surreale, è una riflessione femminista che emerge in un contesto storico segnato dal #MeToo, dalla lotta per l’autodeterminazione femminile e dalla fluidità di genere. Bella Baxter, interpretata da Emma Stone, è una creatura nata da un uomo che, riportata in vita senza i condizionamenti sociali che le direbbero come una donna “deve” comportarsi, esplora il mondo con purezza scandalosa. La sua libertà, espressa attraverso abiti volutamente grotteschi e fuori misura, è una ribellione contro il patriarcato e le costrizioni che riverbera il desiderio contemporaneo di abbattere le strutture oppressive.

Young Frankestein, ( Frankenstein Junior), Mel Brooks – 1974.

Poor Things (Povere Creature), Yorgos Lanthimos – 2023.
Glamour a tutto mondo
Gli Anni 80: il decennio dell’eccesso, del “di più è meglio”, quando sembrava che tutto fosse alimentato da una mistura letale di lacca, spalline e ottimismo sfrenato. In quegli anni, lo status sociale non si costruisce, si gonfia a colpi di abiti firmati e look studiati al millimetro. “Chi ha detto che basta essere qualcuno?” sembra urlare la moda del tempo; meglio essere qualcuno rivestito di satin, spandex e colori al neon. E tutto comincia con una febbre del sabato sera che non si limita a scaldare, ma incendia l’immaginario collettivo. Tony Manero, con il suo completo bianco che brilla quasi di luce propria, non è solo un ballerino: è una divinità della discoteca, un messia del sabato sera. Ogni passo di danza è un inno all’autoaffermazione, e ogni scivolata sul pavimento illuminato è un sermone sull’ambizione. Tony non balla per il gusto di ballare; balla per conquistare il mondo – o almeno il club. Qui la disco non è solo un genere musicale: diventa una religione, e la moda è il suo catechismo. Poi arriva Flashdance, e di colpo tutto si riempie di scaldamuscoli, magliette oversize e sudore. Tanto, tantissimo sudore. La protagonista è una saldatrice di giorno e aspirante ballerina di notte, come a dire che il sogno americano ora si scrive in calze elastiche e ferro fuso. Qui la moda non è semplicemente lusso o sfarzo; è uno strumento di sopravvivenza, un mezzo per sognare in grande mentre si lavora in fabbrica. È come se dicessero: “Sì, puoi anche saldare lamiere, ma indossa scaldamuscoli mentre lo fai, e nessun sogno ti sembrerà impossibile.” La moda qui è umile e tenace, proprio come la protagonista. Infine, entriamo nella fase più ribelle e sfrontata: Cercasi Susan Disperatamente, dove Madonna diventa l’icona punk degli Anni 80, sfoggiando giubbotti di pelle, croci giganti e guanti tagliati come se il mondo fosse la sua personale passerella. Madonna non si limita a seguire la moda; la trascina con sé, la scuote, la incasina. Con lei, la moda è espressione di un’individualità feroce, estrema. È come se ci dicesse: “Puoi indossare tutto ciò che vuoi, purché abbia il potere di scandalizzare la tua vicina di casa e far sospirare tua madre.” È un’epoca in cui la moda non cerca l’approvazione, la pretende e, se non la ottiene, va avanti lo stesso. In fondo, negli Anni 80, tutto può essere indossato, purché faccia notizia. E la notizia non è mai troppa: spalline enormi, trucco esagerato, capelli cotonati fino a sfidare la gravità. La moda diventa un circo, una ribellione rumorosa che racconta un’epoca di sogni e ambizioni, di notti passate a ballare e giorni trascorsi a rincorrere l’idea di essere, semplicemente, “di più”.

Flashdance, di Adrian Lyne – 1983

Desperate seeking Susan (in italiano: Cercasi Susan disperatamente), Susan Seidelman – 1985.