
Cinecittà Milano: set ideale per brand della moda e del design
Difficile dubitare di Milano come punto di riferimento per il design non lo si può mettere in dubbio. Il suo ruolo internazionale si è costruito nel tempo, tra alti e bassi, grazie alla presenza e all’opera di designer, produttori, comunicatori e rivenditori, residenti tutto l’anno oppure pellegrini della Design Week. Se rappresenta un ideale, un punto d’arrivo di molti appassionati e di chiunque voglia dire la sua nel settore, Milano è anche un luogo fisico, un insieme di vie, strade, piazze, scorci, dettagli. Ci si arriva per rimanerci a lungo, o magari solo per la settimana del Salone del Mobile, ma chiunque identifichi nel design una passione o una professione, Milano la conosce e la frequenta. Anche per questo, la città stessa diventa il set ideale per raccontare il design in ogni sua forma. Qualche mese fa un articolo de Il Post titolava “Milano non è un buon set”, portando a esempio il cinema. Aumento dei costi, complessità nell’ottenimento dei permessi, mancanza di servizi adeguati, stanno allontanando le produzioni cinematografiche. Lo stesso articolo sottolinea anche che in città trovano sede il 48% delle agenzie di comunicazione italiane (dati del 2019 di Una, Aziende della comunicazione unite). Se il cinema fa fatica a raccontare Milano, la pubblicità ha vita più facile. Aggiungiamo un altro elemento chiave: la poetica visiva dello spazio di Milano non è fatta di grandeur da capitale. Non ci sono cupole papali, foreste di grattacieli, piazze grandi come praterie. Una delle sue massime espressioni architettoniche si trova nelle soglie e negli androni, negli ingressi che diventano luoghi di progettazione sperimentale che incontra la vita quotidiana, di accostamenti arditi e piante da appartamento, di architetti che lavorano e sciure che rincasano. Sono i luoghi e dell’immaginario resi celebri nel 2017 dal volume Taschen Ingressi di Milano. Visto il successo del libro, la comunicazione ha visto un’opportunità nella scoperta di queste splendide architetture minime, che sono presto diventati veri e propri set. È il caso di Flos, che nel 2024 ha ambientato la sua campagna Icons proprio in androni, ingressi e scalinate, disseminando i suoi prodotti come fossero personaggi in cerca di una casa in cui vivere. Scorrendo questa visual story si scorgono anche persone intente ad ammirare lampade e lampadari, con quella meraviglia che ci coglie quando entriamo per la prima volta in un palazzo e rimaniamo abbacinati da marmi, colori, volumi che non ci aspettavamo. Alzi la mano chi non è mai stato colpito almeno una volta dalla entryway envy nei confronti di chi stiamo andando a trovare. Nell’introduzione di Ingressi di Milano, l’autore Karl Kolbitz si chiede: “Com’è possibile che una città che ha esportato il suo design in tutto il mondo abbia taciuto delle copiose ed esuberanti entrate dei suoi palazzi?”. Viene da rispondere che non avrebbe potuto fare altrimenti, perché non avrebbe rispettato quello spirito – tipico del mondo del design – di cercare la grandezza nel dettaglio e la bellezza nella ritualità quotidiana.

in piazza duomo, la poltrona hortensia di andrés reisinger & júlia esqué per moooi.
Ma perché Milano rappresenta un set adatto a raccontare il design? Non sono meglio case pazzesche in luoghi esotici o set astratti che fanno sognare? Giriamo la domanda a Stefania Siani, presidente dell’Art Directors Club Italiano, associazione di riferimento per i professionisti del settore della pubblicità e della comunicazione. Parte dalla sua storia milanese e arriva dritta al punto: «Sono arrivata qui dalla provincia di Salerno immaginata dai geometri e ho abitato nel Collegio Paolo VI di Gio Ponti, dove lui aveva disegnato persino i mobili. Il mio primo lavoro si è svolto in Corso Europa, in un edificio dall’originalità assoluta progettato da Caccia Dominioni. In quegli spazi la mia vita è diventata diversa». Come spesso accade, una vicenda personale incrocia una dimensione collettiva: «Milano è diventata il set del design a partire dagli Anni 50», prosegue Siani, «quando nel re-immaginarsi ha deciso di tendere a una modernità di respiro europeo. Gli spazi che oggi fanno da set al design sono un’eredità ancora insuperata di personalità indelebili, capaci di un registro personale e consapevole, di un controllo e di un’autodisciplina meneghina esercitata su se stessi domando una creatività feroce e facendosi portatori di un disegno etico. Il set di cui parli appartiene più al passato che al presente. Ma risuona». Ecco, dunque, la Milano più nota, quella moderna, rigorosa, precisa e operosa. Con un contrasto che sa di luogo comune, possiamo dire che siamo lontani dalla grandezza e dalla bellezza di Roma, e si sa da ben prima che ce lo dicesse Paolo Sorrentino. Non molti lo sanno, ma è lo stesso Sorrentino, proprio ne La Grande Bellezza, a raccontarci il rapporto profondo di Milano con il design. Tocca guardare la versione integrale del film, quella da 170’ uscita nel 2016 e arrivare a una scena tagliata. Oppure cercare la clip da due minuti in rete. Il protagonista Jep Gambardella intervista un anziano Grande Regista senza nome che svela il soggetto del suo prossimo film: “Parla di una ragazza, alla quale cambia il colore degli occhi ogni volta che li apre e li richiude. La gente impazzisce per lei, anche se non ha mai sentito dire nulla. Solo un silenzio e questi occhi. Azzurri, verdi, neri e poi ancora azzurri. Un incanto. Sa da cosa mi viene questa idea? Dal mio primo incanto. Che non fu per una ragazza, no, no. Fu per il primo semaforo che installarono a Milano all’incrocio tra Piazza del Duomo e Via Torino. Mio padre mi mise sulle spalle perché c’era una gran folla. Ma capisce? Una folla radunata per vedere un semaforo. Che bellezza, che grande bellezza!”. Questo incanto milanese risale all’aprile del 1925, esattamente 100 anni fa. Le foto dell’epoca ci mostrano questa sorta di grande lampione e il Duomo sullo sfondo, con una piccola folla attorno a curiosare. Abbiamo dunque la prova che a Milano un oggetto di design e la città sullo sfondo creano un cortocircuito unico, che svela un profondo amore per le piccole cose che fanno grandi differenze. Non dimentichiamo che quel piccolo intervento luminoso al centro di una strada ha cambiato per sempre il modo di muoversi in città.

la tappa milanese di nomadic woak, con pezzi di raquel pacchini e andrea steidl di /àr-o/ studio.

il monumento dall’architetto Aldo Rossi diventa il set per lo still life delle ceramiche bitossi.
Una scena analoga si è ripetuta nella campagna di presentazione di Hortensia, poltroncina di Andrés Reisinger per Moooi, rivestita da migliaia di petali tagliati al laser. L’oggetto nasce nel 2018 come rendering e diventa virale su Instagram. Reisinger ne realizza qualche pezzo con l’aiuto della textile designer Júlia Esqué. Moooi se ne accorge e supporta il progetto. In occasione dell’annuncio della collaborazione, ha preso a circolare l’immagine della poltrona nel bel mezzo di piazza del Duomo. Ma non si è trattato di una scelta ovvia, anzi. Era l’aprile 2021, la primavera senza la Design Week, visto che l’evento era stato posticipato a settembre causa pandemia. In quei mesi tutto era virtuale: non si viaggiava, ci si salutava con una gomitata, si chiacchierava su Clubhouse e si discuteva del metaverso come nuova frontiera. Oggi la poltroncina Hortensia esiste e ci si può sedere sopra, ma allora era soltanto una promessa in una foto intitolata People can’t travel but furniture can. Tra tutti gli sfondi possibili Moooi ha scelto Milano, portando fisicamente l’oggetto in città: un omaggio o un atto di nostalgia radicale? Più che altro un gesto generatore di senso, una visione che ha posizionato un prodotto non ancora nato in un luogo dell’anima, una città che era nei pensieri di tutti coloro per i quali il mese di aprile significa design. Sono tanti i progetti fotografici che hanno messo il design negli angoli più insoliti di Milano, nei “posti sinceri” (anzi, @postisinceri) che iniziano a scarseggiare in città: latterie, osterie, pasticcerie, bar in cui il tempo non passa da decenni. A volte il set invita a una sorta di caccia al tesoro, o forse diventa un modo per verificare il grado di “milanesità”. Riconoscere certi luoghi è come dire “tassì” e “metrò”, parole che ti escono dalla bocca solo se sei milanese da generazioni o se ti sei fatto possedere dal genius loci. Accade con la campagna Take Me Out di Gebrüder Thonet Vienna. Nel 2024, il fotografo Beppe Brancato ha letteralmente portato le sedie più note del marchio austriaco a spasso per locali storici, più o meno noti, ma genuinamente meneghini: Bar Jamaica, il Bar Paradiso, il Camparino in Galleria, La Conca Social Club, il Motelombroso e il Palinurobar. Ve ne manca uno? Cercate, andate e postate.

la oto chair in plastica riciclata di one to one, alcova, ex macello di milano, 2023.

manifesto di msgm, ai 21/22, nella stazione di porta venezia della metro “rossa” di milano.
Anche il Comune e YesMilano hanno scelto la città come set per la campagna Milano Home of Design dello scorso anno. In questo caso in giro per la città non c’erano oggetti, bensì designer, curatori, chef, stilisti. In un parcheggio con la Torre Velasca sullo sfondo, su un set fotografico in allestimento, riconosciamo Milovan Farronato, Fosbury Architecture, (Ab)Normal. E il sindaco Beppe Sala in persona sistema le luci. Al Campus Bocconi progettato da Sanaa incontriamo uno stuolo di personaggi che portano a spasso il cane, tra cui Andrea Trimarchi e Simone Farresin di Formafantasma, Valentina Ciuffi e Joseph Grima di Alcova, Loris Messina e Simone Rizzo di Sunnei. Sulla scalinata del Monumento a Sandro Pertini di Aldo Rossi (già utilizzato in passato da Bitossi Ceramiche per una campagna) scorgiamo Yoji Tokuyoshi, Alberto Biagetti & Sara Baldassari, Alessandro Bava, 2050.plus, Cino Zucchi, Sara Ricciardi. Non conoscete qualcuno di questi personaggi? Cercateli e seguiteli, perché lavorano sui dettagli che fanno grande la bellezza di Milano. Nomadic Woak è un recentissimo progetto fotografico di Luca Caizzi. Woak ha sede in Bosnia-Erzegovina, ma da tempo collabora anche con designer italiani, milanesi (e non solo). Molti scatti vedono i prodotti, anzi, i “pezzi” della collezione letteralmente sparpagliati per Milano (e non solo). Interni, esterni, metropolitane, piazze, cucine, studi, portinerie si popolano di sedie, tavoli, contenitori e altro, spesso accompagnati dai designer. In città sono stati ritratti /àr-o/ studio (che sono anche i direttori creativi dell’azienda) e Francesco Faccin. Oltre che un set, Milano, diventa una purissima fonte d’ispirazione. Per Massimo Giorgetti di Msgm è proprio amore e nelle sue collezioni spesso dichiara la sua passione (quasi un’ossessione) per la città. La collezione Ai 21/22 si intitolava Manifesto ed è stata presentata in piena pandemia con un video girato da Francesco Coppola al Teatro Manzoni.

l’allestimento presso la conca social bar delle sedie vienna di gebrüder thonet.
Tutto andava al contrario e la colonna sonora era stata composta per l’occasione da Sergio Tavelli e Andrea Ratti del Club Domani. Gea Politi di Flash Art recitava il manifesto. Giorgetti ha anche celebrato i bar di quartiere e il Bar Basso (mitologico covo di designer nelle serate della Design Week), e di recente il design della linea rossa della metropolitana. Lo ha fatto sfilando nel mezzanino della stazione Porta Venezia per la collezione Ai 24/25, ma anche riproducendo su molti capi le forme dei corrimano tubolari rossi disegnati da Franco Albini. Segno grafico e oggetto funzionale, ora la segnaletica e l’arredo della linea rossa si possono persino indossare. Magari lo riconosceranno soltanto gli appassionati del design, ma sarà un bel modo per dichiarare una forma di appartenenza (e di ossessione). In tutti questi casi il confine tra architettura, design e comunicazione si fa labile. Forse la comunicazione sta forse iniziando a sfruttare la città? Forse – come dice un passaggio del manifesto di Msgm – è vero che Milano is shallow, Milano is individualism, Milano is dishonesty? Giriamo la domanda a Stefania Siani: «Non è vero che Milano ha il culto della comunicazione solo intesa come marketing per attrarre investimenti e capitale umano. La città si è resa conto che questo portato era latente per il mondo e negli ultimi dieci anni ha fatto emergere dalla latenza questo patrimonio. Ha compiuto un atto dovuto. È comunicazione sì, ma su tutto un fondamentale lavoro di storicizzazione».Forse possiamo dire che sono i luoghi, gli oggetti, le persone a incarnare la comunicazione di Milano. Non è soltanto questione di estetica, ma di cura e dedizione, una cura che parte dai dettagli e invade tutto il resto. A Milano, si sa, non c’è la grande bellezza di Jep Gambardella, quella che lui vorrebbe, ma che gli sfugge, quella che gli fa ammettere: “Cercavo la grande bellezza, ma… Non l’ho trovata”. Ma forse il bello si può trovare guardando la città, magari partendo da un semaforo, scoprendo gli androni, scovando i locali genuini, per arrivare a conoscere le persone e il loro lavoro. E tutta questa vita si può raccontare in un set.