PeopleIntervista a Giorgio Metta, il “papà” del robot androide iCub

Intervista a Giorgio Metta, il “papà” del robot androide iCub

È lui o non è lui? È lui, è lui... iCub – progetto seguito e diretto da Giorgio Metta – è alto solo 104 cm, pesa 22 kg e si muove, parla e impara a razzo come un bambino di cinque anni. Eppure, quando lo vedi in braccio al suo creatore, non puoi avere dubbi: è lui, solo più piccolo. Sorriso accattivante, corporatura minuta, gli occhi scuri e buoni di chi, tra cavi e transistor, per lo più si diverte, anche se dall’inizio della pandemia è travolto dai tavoli tecnici con il governo, che si sono aggiunti agli impegni dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova, di cui è direttore da quando nel settembre del 2019 Roberto Cingolani è diventato Chief Technology Innovation Officer di Leonardo (ex Finmeccanica).

Classe 1970, cagliaritano, al secolo “ingegnere elettronico”, Gianni Metta è stato il protagonista dell’avventura che ha reso famoso l’Iit per avere creato questo umanoide bimbo, uno dei pochi al mondo con pelle sensibile su tutto il corpo, reso ora disponibile in 30 esemplari in laboratori europei, statunitensi, coreani e giapponesi. Sviluppato in collaborazione con varie università europee riunite nel RobotCub Consortium, il piccolo iCub serve a studiare lo sviluppo della cognizione umana attraverso l’implementazione di algoritmi biologici. Qualunque cosa voglia dire, si tratta di una delle frontiere più avanzate nello studio delle neuroscienze e delle loro applicazioni alla robotica, che ci prefigurano un futuro degno dei Pronipoti, il cartone di Hanna-Barbera sulla famiglia Jetson, che già negli Anni 60 faceva da contraltare ai primitivi Antenati di Fred Flintstone e signora, tra case, auto e città robotizzate.

La sua storia inizia un sabato di molti anni fa, in un laboratorio universitario, mentre stava lavorando ad algoritmi di elaborazione delle immagini: «Parliamo di quando il calcolatore impiegava un’intera notte a eseguire i calcoli per elaborare immagini di soli 128 pixel di lato», ci racconta, rievocando come zio Paperone il suo “Klondike” tecnologico. «Fu allora che, per la prima volta, sognai di robot umanoidi guidati dal senso della vista». In seguito si sarebbe trasferito al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, tempio mondiale della scienza. Proprio lì, però, a un certo punto decise che, grazie a un finanziamento europeo, avrebbe potuto portare avanti la sua ricerca anche in Italia, insieme ai colleghi europei: «Fu la seconda sliding door della mia vita. Quel giorno, posso dire, è nato iCub, non fisicamente ancora, ma certo nei miei pensieri». Difficile immaginare qualcuno che abbia il polso del futuro più di lui. Così non ci siamo risparmiati. E approfittando della sua affabilità robotica, che gli consente di computare risposte a tempo di record, abbiamo sperimentato la sua preveggenza dalla A di “automazione” alla Z di “zoomorfismo”, per capire di che vita vivremo quando questa crisi sanitaria sarà superata e anche l’Istituto Italiano di Tecnologia potrà tornare a occuparsi a tempo pieno esclusivamente di riprogrammare le nostre esistenze in amabile compagnia dei nostri cugini androidi. I quali tuttavia, assicura, ci aiuteranno anche ad affrontare le pandemie.

Il joiint lab si occupa di robotica e meccatronica in sinergia con un pool d’imprese. è tra i 12 laboratori iit in italia oltre ai 4 di genova.

L’intervista a Giorgio Metta, papà di iCub

The Good Life: Questa crisi sanitaria globale difficilmente sarà l’ultima. L’information technology può contribuire alla soluzione di un problema che sembra quasi riportarci indietro nel tempo?

Giorgio Metta: La sostenibilità dei diversi processi che presiedono alle nostre relazioni economiche e sociali è uno dei pilastri sul quale si regge il nostro futuro. La diffusione delle ultime infrastrutture di rete per le comunicazioni mobili è un elemento tecnologico importante per favorire attività di monitoraggio ambientale, accesso e sviluppo per gli abitanti dei Paesi poveri, formazione e trasferimento delle tecnologie. La costruzione e l’utilizzo di supercomputer velocizza lo sviluppo di progetti di ricerca sull’intelligenza artificiale e su diversi ambiti della nostra esistenza: dalla salute, alle valutazioni sui mutamenti climatici, all’individuazione di nuovi modelli di sviluppo. Potenziare le nuove tecnologie e renderle disponibili a tutti è un imperativo se si vogliono ridurre le diseguaglianze. Questo per dire che la tecnologia è un elemento fondamentale nella costruzione di un futuro sostenibile che possa portare benefici in maniera uniforme in tutto il mondo. Quello che abbiamo costruito fino a questo momento non è sostenibile per il Pianeta. Dobbiamo investire sempre di più nella tecnologia affinché lo sviluppo sia accessibile a tutti, e perché lo sia non c’è altra soluzione se non fare in modo che sia sostenibile dal punto di vista ambientale.

TGL: Quali sono i settori tecnologicamente strategici per il futuro?

G.M.: I prossimi anni vedranno diverse tecnologie consolidarsi e pervadere sempre di più la nostra quotidianità. L’ artificial intelligence (AI) e il relativo ecosistema, già implementata in diversi campi, continuerà a crescere insieme alla capacità di calcolo a livello globale. Sarà necessario, infatti, non solo avere algoritmi in grado d’interpretare dati in maniera “intelligente”, ma anche una potenza computazionale sufficiente a elaborare big data, ossia quantità di dati quotidianamente raccolte sinora inconcepibili, a prescindere dalla tipologia di informazioni da processare.

TGL: In termini di capacità di elaborazione dei dati, la Cina è prima per unità di calcolo, con 212 supercomputer. Gli Stati Uniti sono primi per potenza aggregata. Il Giappone ha il cervellone più potente, Fugaku, da 442 petaflops: sono centinaia di quadrilioni di calcoli in un secondo. Il primo supercomputer europeo nella top ten mondiale, il Juwels Booster Module, è settimo, con 44,1 petaflops. Ma anche l’Italia se la cava: il Marconi-100 del Cineca di Casalecchio di Reno è in undicesima posizione e il HPC5 di Eni è l’ottavo supercomputer commerciale più potente del mondo, con 35,5 petaflops. A cosa serve questa corsa alla capacità di calcolo?

G.M.: Le scienze computazionali saranno d’interesse strategico e trasversali in tutti i campi della scienza e della tecnologia: dall’ambito sanitario a quello dell’ingegneria, per arrivare alle neuroscienze e alla scienza dei materiali. Oramai tutta la ricerca di frontiera si fonda sulla possibilità di fare calcolo, di analizzare i dati in maniera sofisticatissima, di simulare a calcolatore ancora prima di realizzare un’opera di ingegneria, piuttosto che un nuovo materiale o un nuovo farmaco. Un’altra frontiera che merita attenzione è quella della robotica, che anche grazie ai progressi sull’AI, giocherà un ruolo di primo piano sia in ambito industriale che sociale. In seguito all’emergenza sanitaria ci si è resi conto ancora di più delle potenzialità di questo settore e del concreto contributo che potrebbe dare al sistema produttivo e sanitario del Pianeta. Robot controllati in remoto potrebbero svolgere lavori rischiosi in condizioni sfavorevoli in ambiti come la logistica o in campo manifatturiero senza sostituire l’uomo, ma ampliandone le possibilità e le performance e riducendo il rischio di infortunio dei lavoratori. In ambito ospedaliero si potrebbero assistere i malati minimizzando i rischi di contagio mediante sistemi robotici od operare a distanza pazienti che non possono spostarsi o che non sono facilmente raggiungibili. Ultima, ma non per importanza, la genomica, uno dei settori strategici più rilevanti. Gli studi recenti in tale campo potrebbero portare a breve termine l’utilizzo su larga scala di farmaci di nuova generazione basati su RiboNucleic Acid (Rna), l’acido ribonucleico. È un tipo di molecola che svolge un importante ruolo nella codifica, decodifica, regolazione ed espressione dei geni. Questi nuovi farmaci saranno in grado di affrontare patologie fino a oggi considerate incurabili come alcune malattie legate al sistema nervoso. Inoltre, vedremo un consolidarsi, non solo nei laboratori di ricerca, ma anche nella clinica, di tecniche di gene editing come CRISPR-Cas9, i cui inventori sono stati recentemente premiati con il Nobel.

Lo smart working industriale in remoto è tra le linee di ricerca iit.

TGL: Tra Cina, Usa, Giappone, Europa, India, Russia, chi vince?

G.M.: È difficile se non impossibile stilare una classifica. Le aree in cui questi Paesi stanno lavorando alacremente, mi riferisco in particolare alla ricerca, sono identiche e dedicate essenzialmente allo sviluppo di ricerche e applicazioni sull’AI, big data, armamenti automatizzati e robotica civile, 5G. Si deve considerare che stiamo osservando, nella valutazione dei piani di ricerca e tecnologici di questi Paesi, un sistema multipolare dove, a differenza del passato, agiscono molti attori di dimensioni diverse che offrono apporti innovativi e originali che vengono poi utilizzati dai Paesi più importanti politicamente ed economicamente. Esiste anche una differenza di “modello” nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico: se negli Usa si assiste principalmente all’investimento delle grandi corporation, l’apporto pianificato dello Stato è sicuramente preponderante in Cina. Mentre in Europa vediamo un’attenzione particolare verso i temi della sostenibilità (green deal) e quelli legati alla tutela delle libertà personali (privacy, fairness). Nella corsa al primato tecnologico vince chi riesce a investire, in tempi medi, ingenti capitali pubblici e privati nella ricerca e a trasferirne poi i risultati al mercato molto velocemente.

TGL: In quali settori l’Italia opera o collabora con più successo?

G.M.: Storicamente, la ricerca italiana è sempre stata ai vertici nel settore chimico e farmaceutico: i premi Nobel conferiti a Giulio Natta, un ingegnere chimico, per le sue scoperte nel campo della tecnologia dei polimeri, e alla neurologa Rita Levi Montalcini, che illustrò il fattore di accrescimento della struttura assonale del cervello, lo dimostrano. Oggi, anche grazie al lavoro dell’Iit possiamo vantare una forte presenza nella robotica, nell’aerospazio e, come da tradizione, nella ricerca farmaceutica. Se analizziamo i dati recenti, inoltre, vediamo che l’Italia vanta un primato importante anche nell’impiego della ricerca robotica nell’ambito dell’industria manufatturiera, oltre che un buon piazzamento nel campo dell’AI. In questo momento così particolare, bisognerebbe cogliere questa opportunità per fare un balzo in avanti nella “tecnologizzazione” del Paese.

TGL: Quali sono o saranno i protagonisti decisivi dell’innovazione: gli apparati militari, le università, le organizzazioni e gli organismi internazionali o transnazionali oppure le corporation private?

Giorgio Metta: «L’osservazione dell’innovazione stupefatta e timorosa deve lasciare spazio a una visione»

G.M.: Credo che le grandi aziende giocheranno ancora un ruolo fondamentale, ma che le realtà di ricerca insieme alle università possano fare sinergia e diventare protagonisti dell’innovazione utilizzando – almeno per quanto ci riguarda – i programmi europei di Horizon Europe come trampolino di lancio. In svariati settori il comparto della ricerca non è in diretta competizione con le big tech, perché la conoscenza che produce diventa un bene comune. Ma è necessario connettersi di più con il sistema produttivo per innescare un meccanismo virtuoso, in cui la ricerca, generando innovazione, ha un impatto sul tessuto economico capace di portare ulteriori risorse alla ricerca di base e applicata.

Questo significa, per un Paese come il nostro, provvedere a un adeguato piano di investimento sulla ricerca, soprattutto a livello nazionale, per far sì che questo meccanismo virtuoso possa essere innescato. È certamente vero che gli investimenti in settori molto specifici delle big tech possono portare anche a una crescita negli aspetti della ricerca di base, visti anche i programmi di collaborazione e contributo scientifico che molte di queste aziende comunque perseguono. Non tutte, sfortunatamente…

TGL: Se i dati non ingannano, l’Italia nell’Unione Europea occupa ancora una posizione di metà classifica. Nel 2020 abbiamo investito circa l’1,5% del Pil, la metà del 3% fissato come obiettivo dalla Commissione Europea, raggiunto e superato, nell’ordine, da Svezia, Austria, Danimarca, Germania. L’anno italiano più promettente è stato, secondo l’Istat, il 2019, grazie a un +7,6% di investimenti no profit, +4,3% delle istituzioni pubbliche e +1,9% delle imprese. Ma il calo dovuto all’emergenza sanitaria, quest’anno, ha penalizzato molto proprio queste ultime, che nel 2018 hanno sostenuto il 63,1% degli investimenti nazionali in ricerca e sviluppo.

G.M.: Qualcosa si sta muovendo, indubbiamente. Ma va riconosciuto che siamo ancora lontani dagli standard internazionali.

TGL: Lo scarto crescente di potere e ricchezza tra chi ha di più e chi ha di meno contribuisce a molti degli attuali problemi di stabilità in un numero crescente di Paesi. Ci sono centinaia di nuovi miliardari ogni anno. E i cinque cittadini più ricchi negli Stati Uniti, patria della Silicon Valley, pare possiedano più denaro di tutto il 50% più povero della popolazione: ossia di 160 milioni di persone. Del resto, il 50% dei più poveri sono sempre meno pagati, date le competenze necessarie per mantenersi competitivi in un mondo del lavoro destinato a una rapida obsolescenza: a quanto pare sarebbero gli archeologi i lavoratori con le maggiori probabilità di non essere sostituiti dalle macchine… Mentre operai, autisti, impiegati allo sportello e al terminale presto avranno il fiato corto… persino i giornalisti, se pensiamo che  lo scorso settembre il Guardian ha pubblicato il primo editoriale scritto da GPT-3: un robot…

G.M.: Stiamo vivendo in un momento di grandi e rapidi cambiamenti dal punto di vista tecnologico e di conseguenza sociale che non ha eguali. A fronte di attività destinate a non avvalersi più del lavoro dell’uomo ne nasceranno altre, nuove, che creeranno migliori opportunità e originali profili professionali.

TGL: Gli economisti del Mit di Boston Andrew McAfee ed Erik Brynjolfsson, tuttavia, nel libro La nuova rivoluzione delle macchine, l’hanno chiamato “il grande scollegamento”, attribuendone la responsabilità proprio alla rivoluzione informatica. Eppure tutti esortano a imboccare velocemente la strada della digital transition, di cui anche la piattaforma Industria 4.0, di cui tanto si parla anche in Italia, è figlia. Come attenuare gli effetti socialmente distorsivi, discriminatori e distruttivi di questo passaggio?

G.M.: È impossibile frenare o deviare il corso di processi innovativi tanto influenti su tutte le attività. Dobbiamo essere parte attiva ed equilibrata in questa mutazione per continuare a esserne attori. L’osservazione stupefatta e timorosa dell’innovazione deve lasciare spazio a una visione permeata di ottimismo verso un futuro migliore per tutti.

Giorgio Metta: «È necessario lavorare ancora molto sulla legislazione relativa all’intelligenza artificiale»

TGL: Quali sono i settori sociali in cui le tecnologie in più rapida evoluzione porteranno i maggiori benefici equamente accessibili?

G.M.: In campo sanitario vedremo nuovi farmaci progettati “in silico”, con l’ausilio di simulazioni computerizzate, e poi portati sugli scaffali delle farmacie, che avranno costi ridotti e saranno più accessibili; nuove protesi low cost di arti superiori ed inferiori in grado di cambiare la vita a chi ha subito un’amputazione o è vittima di una malformazione, nuove nanoparticelle sensibili alla luce in grado di “sostituire” un retina danneggiata da malattie degenerative; nuovi sistemi robotici che, grazie a una moderna infrastruttura di rete 5G, saranno in grado di operare a distanza più pazienti con un costo ridotto e in luoghi difficilmente raggiungibili. Anche il settore del lavoro, però, potrà beneficiare delle nuove tecnologie: avremo impianti produttivi più efficienti e in grado di ottimizzare l’utilizzo delle risorse naturali come il consumo d’acqua, esoscheletri per diminuire i rischi d’infortunio durante lo svolgimento di lavori pesanti come la movimentazione di carichi, o robot pronti a rischiare al posto di operatori umani, che potranno svolgere le proprie mansioni a distanza e in sicurezza.

TGL: Deep learning, ossia insegnare alle macchine a “pensare” come se fossero esseri umani sfruttando immense quantità di dati, i famosi big data, dragati grazie alla Internet of things e a tecnologie domestiche come Alexa, Siri e simili. Chi è all’avanguardia oggi in questo campo e con quali applicazioni realizzate o possibili?

G.M.: Il deep learning offre molte possibilità. Per imparare come un essere umano la strada è ancora lunga, ma di certo questa branca del machine learning sta velocizzando il progresso facendo avvicinare sempre di più i sistemi di apprendimento artificiali a quelli umani. Stati Uniti, Canada, Cina e Giappone sono sicuramente player importanti in questo campo e le big tech, quanto a capacità di raccogliere grandi quantità di dati, non hanno eguali. Ma andando oltre le finalità tipicamente commerciali dobbiamo pensare a sistemi che possano essere in grado di adattarsi velocemente a situazioni non strutturate. Nel campo della robotica umanoide, per esempio, i nostri ricercatori lavorano su algoritmi di deep learning in grado far riconoscere al robot un oggetto imparando a sfruttare le risorse presenti sul web in tempo reale. Questa attività apparentemente banale permetterà ai robot di domani di apprendere osservando in modo da potersi muovere e interagire in ambienti complessi, pensati per gli esseri umani e non progettati specificatamente per i robot. Inoltre, tali algoritmi potrebbero, avendo a disposizione grandi quantità di dati, fornire diagnosi sempre più accurate, imparando da una conoscenza globale potenzialmente illimitata e diventare uno strumento cruciale per il personale sanitario.

TGL:  Difficile credere che anche la più perfezionata e aggiornata normativa sulla privacy possa arginare questa pesca a strascico di dati. Inoltre, ci sono Paesi, come la Cina, in cui il senso della privacy è molto più debole del nostro. Quali sono rischi e opportunità insiti nell’applicazione della AI applicata ai big data: non saremo noi a essere plasmati dalle macchine, anziché il contrario?

G.M.: Gli algoritmi che elaborano i dati sono creati dall’essere umano. Così lo sono i dati che diamo in pasto a questi sistemi per allenarli e le macchine che agiscono in seguito ad una elaborazione complessa. Dipende tutto da noi, da come vogliamo applicare queste tecnologie e da cosa ci aspettiamo di ottenere. È necessario sicuramente lavorare molto sulla legislazione relativa all’IA a livello globale e all’utilizzo di dati, ma se le decisioni verranno prese con serietà, etica e competenza e saranno disponibili i mezzi appropriati, come infrastrutture di rete adeguate, sistemi di archiviazione sicuri e una solida policy, i vantaggi supereranno ampiamente i potenziali rovesci della medaglia che, come in ogni campo, sono ovviamente presenti. In Europa si stanno investendo molte risorse in questa direzione e questa attenzione è anche uno dei fattori distintivi a livello globale. 

TGL: Casa, ufficio, scuola: come s’immagina nel prossimo futuro questi ecosistemi uomo-macchina o inforg, come li ha chiamati il filosofo Luciano Floridi nel best seller La quarta rivoluzione?

G.M.: In casa avremo sempre più oggetti che comunicano tra loro e cercano di prevenire i nostri bisogni, tutto magari coordinato da un robot che potrà anche interagire all’interno dell’ambiente casalingo assistendoci concretamente nei lavori domestici in modo naturale. La scuola la immagino connessa maggiormente alla rivoluzione tecnologica in atto, con corsi di programmazione e AI che iniziano alle scuole primarie e accompagnano lo studente in tutte le fasi del percorso scolastico. Non dimentichiamo, però, anche elementi decisamente più “umani” come, per esempio, l’educazione al pensiero critico, alla scienza in generale. Sarà essenziale avere una nuova generazione pronta a fronteggiare il cambiamento che è già in atto nel mondo del lavoro. L’ambito lavorativo sarà sempre più connesso con le nuove tecnologie: intelligenza artificiale e robotica saranno strumenti imprescindibili e i compiti più rischiosi e gravosi saranno sempre più spesso affidati a sistemi automatici gestiti e programmati dall’uomo che li affiancherà contribuendo con la propria creatività e intelligenza a 360 gradi al processo produttivo, qualsiasi esso sia.

TGL:  Nel 1975 solo tre dei grandi centri urbani del mondo – Tokyo, New York e Città del Messico – avevano più di 10 mln di residenti. Secondo il dossier World Urbanization Prospects 2018, entro il 2050 due terzi della popolazione mondiale vivrà in città, una tendenza trainata da India, Cina e Nigeria, con Delhi, che a partire dal 2028 sarà la metropoli più popolosa, superando gli attuali 37 mln di abitanti di Tokyo. Ma già oggi il 10% della popolazione mondiale vive in città con più di 10 mln di abitanti. La popolazione urbana mondiale aumenta ogni anno di circa 60 mln di persone, soprattutto nei Paesi a medio reddito. E attualmente circa un terzo vive in slum, percentuale che supera il 60% in Africa. Quest’ultima ha infatti una popolazione urbana superiore a quella del Nord America e dell’Europa occidentale. Mentre l’Asia ospita già metà della popolazione urbana mondiale, nonché 66 delle 100 aree urbane che crescono di più, 33 delle quali si trovano in Cina, contando da sole 630 mln di abitanti. Di fronte a questo scenario, che francamente evoca qualcosa a metà strada tra Metropolis, Blade Runner e Matrix, sentiamo quotidianamente parlare di smart cities ecosostenibili. Ci dobbiamo credere?

G.M.: Non credo si possa identificare un modello unico di smart city. Ogni contesto geografico e storico ha tradizione, cultura, abitudini, condizioni di partenza e risorse differenti. Per me la smart city è quella in cui la tecnologia è disegnata intorno alle esigenze dell’essere umano e del nostro Pianeta. Soluzioni di mobilità sostenibile adatte ai diversi territori, strutture sanitarie e istituzioni che, grazie alla tecnologia, semplificano la vita dei cittadini nelle operazioni della vita di tutti i giorni. La smart city ideale, questa è la mia opinione, si realizza integrando le tecnologie a nostra disposizione in un ecosistema pensato per il cittadino e nel rispetto dell’ambiente. Immaginiamo anche di realizzare una decentralizzazione dei servizi, sempre più remotizzabili e vicini all’utente. Pensiamo a una medicina diffusa e meno ospedaliera, ai servizi di consegna automatizzati per tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Ci muoveremo magari un pochino meno, ma molto meglio e solo per fare cose che ci interessano davvero.

TGL: Viaggeremo un giorno nel tempo, come dicono alcuni, così da evitare di viaggiare (troppo) in uno spazio sempre più affollato e, a quanto pare, sempre presidiato dal punto di vista sanitario?

G.M.: Non credo si viaggerà nel tempo. Ma in ogni caso, se mai lo faremo, cercheremo in tutti i modi di evitare il 2020…

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