The Good Life Italia

Social Lab, inclusione, confronto e socialità

Erano gli Anni 90 quando il sociologo americano Ray Oldenburg teorizzava il concetto di “third place” nel suo libro The Great Good Place, cioè lo spazio terzo, oltre quelli della vita privata (la casa) e dello studio o del lavoro. Il luogo in cui – secondo lo studioso – può finalmente germogliare e rafforzarsi il senso di appartenenza a una comunità, ma anche la sua vitalità sociale, e dove si può praticare l’esercizio della democrazia perché il terzo luogo (che si tratti di un bar, di un giardino pubblico o di una biblioteca) annulla gli squilibri che possono esistere negli altri due spazi. È un tema diventato di grande attualità oggi, in quanto i “terzi luoghi” sono al centro del grande capitolo dell’urbanistica e dell’architettura di questo inizio millennio: la rigenerazione urbana. 

Cosa vuol dire, allora, se un parcheggio di 2 200 mq in una classica area suburbana europea diventa un complesso residenziale con 70 appartamenti, spazi comuni (dalla lavanderia alla serra), un’area formata da parco, arena per concerti, pub, appartamenti per gli ospiti (incluse stanze su misura per disabili) utilizzabili su prenotazione, il tutto carbon free e dove le auto non possono circolare? «Vuol dire che hai fatto rinascere un pezzo di città, seminato cultura ecologica e sociale, migliorato la qualità della vita, favorito la socializzazione e l’interculturalità», spiega Kaja Tollersrud del grande collettivo di architettura Lpo. Lo studio, fondato a Oslo e oggi formato da circa 100 architetti-soci che gestiscono collettivamente tre sedi, nel 2019 ha vinto il locale bando Reinvent-ing City con Urban Village Team, un progetto di rigenerazione per un quartiere a forte densità multiculturale di Oslo, abitato da 10 000 persone di 140 diverse nazionalità. «La sfida era riuscire a rispettare dieci diversi requisiti per l’ambiente e la sostenibilità sociale. Così abbiamo creato una struttura che in buona parte è sostenibile, in legno lamellare crociato, ed energy-positive, cioè in grado di produrre più energia di quanta ne consuma, grazie ai pannelli fotovoltaici installati sui tetti e su alcune facciate. E che è dotata di spazi comuni belli e funzionali, come il giardino e le serre create insieme ai paesaggisti dello studio di Sla, che potranno diventare aree di agricoltura urbana. Siamo convinti che un progetto abitativo di questo genere può creare davvero appartenenza e senso di comunità perché è un luogo di incontro e interazione sociale reale, che aiuta a combattere la solitudine». 

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urban village team è un nuovo complesso residenziale pubblico di oslo progettato dallo studio lpo.

il centro comunitario agora della cittadina francese di metz

progettato da ropa & associés architects.

Inclusione, confronto e socialità sono le tre parole chiave che hanno guidato anche lo studio di architettura Ropa & Associés Architectes nella progettazione di Agora, il nuovo Centro comunitario della cittadina di Metz, nel Nordest della Francia. Un progetto senza precedenti per la Francia e una sfida che riunisce sotto lo stesso tetto una mediateca, un centro sociale e uno spazio per il coworking. «Agora è la pietra angolare di un quartiere in pieno rinnovamento. La sua architettura generosa e colorata, il suo mix di utilizzi plurali e ibridi, la sua apertura al quartiere e la capacità di accogliere un pubblico di ogni età costituiscono un segnale forte per ricreare un’urbanità locale perduta», spiega Laurent Blondel che, con Djamel Kara e il fondatore Bernard Ropa, dirige lo studio di architettura che ha firmato il progetto. «In questo lavoro non ci siamo limitati a rispettare le richieste della committenza, siamo andati oltre creando più spazi flessibili, che si prestano a usi ibridi, abbiamo aggiunto uno schermo per le proiezioni all’aperto, cercando però di mantenere uno schema funzionale chiaro e leggibile, con percorsi intuitivi e soluzioni tecniche adeguate, come la protezione acustica al rumore dalla vicina linea ferroviaria. Lo studio della dispersione delle onde sonore ha portato alla forma stessa delle pareti perimetrali del lato nord trasformando i treni (ne passano più di 200 al giorno) da problema a “elemento decorativo dinamico”, grazie alle finestre a forma di oblò che incorniciano il loro passaggio». Sul lato opposto, invece, l’edificio è trasparente, aperto visivamente al pubblico. «I grandi sporti del tetto e dei solai intermedi proteggono gli ambienti sottostanti dalla luce diretta del sole e ci hanno permesso di avere spazi vetrati a tutta altezza, mostrando all’esterno le attività del centro, con l’obiettivo di sollecitare la curiosità e invogliare alla partecipazione. Per finire, all’esterno abbiamo creato uno spazio libero aperto al gioco e all’avventura con un percorso di passerelle e scale che permettono di fare una passeggiata aerea tra le chiome degli alberi del vicino boschetto». Oggi l’Agora è diventanto un punto di riferimento per tutta la cittadina a ogni ora del giorno e della sera.

rajkumari ratnavati girls school è una scuola femminile nei pressi del villaggio di kanoi, nel deserto di jaisalmer, in india. ospita 400 ragazze.

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Lo stesso risultato si propone il progetto Cascina Case Nuove in via Paravia a Milano, nel quartiere di San Siro, dove è stato appena avviato il recupero di una cascina abbandonata da decenni per creare un luogo di aggregazione con biblioteca, servizi per bambini 0-6 anni, laboratori per adolescenti, parco, e aree per concerti. In tutto 3 000 mq coperti e 2 500 tra piazza e giardini aperti e fruibili da tutti negli orari di apertura del centro. «La vecchia cascina si trova in posizione strategica tra la zona residenziale e quella delle case popolari: farla vivere, quindi, vuol dire anche unire le due anime di un quartiere fortemente multiculturale (con abitanti di 85 Paesi diversi) perché un polo culturale è un grande attivatore della vita di una comunità», spiega Matteo Schubert di Alterstudiopartners, che da 25 anni progetta biblioteche e poli culturali e che per il progetto Case Nuove sta collaborando con la Fondazione Terzoluogo. «La cascina verrà in parte recuperata e in parte no, per ampliare la corte dove inseriremo la biblioteca pubblica di quartiere e lo spazio per bambini, con il supporto della Fondazione Bambini Bicocca, presieduta dalla docente di pedagogia Susanna Mantovani. La speranza è che questo progetto dia la spinta per ripensare anche via Paravia, oggi molto trascurata, che potrebbe diventare un verdissimo boulevard».

Leggi anche: Gli spazi pubblici cambiano indirizzo

Ci sono poi luoghi, in genere al di fuori delle grandi città, in cui questi obiettivi di cambiamento si possono raggiungere costruendo una scuola. Come la Rajkumari Ratnavati Girls School, una scuola femminile nei pressi del villaggio di Kanoi, nel deserto indiano di Jaisalmer. La scuola, che ospita 400 ragazze dall’asilo alla decima classe, è solo il primo dei tre edifici che porteranno alla realizzazione del Gyaan Centre, destinato a ospitare una cooperativa artigiana di donne, un museo e una sala per esposizioni e performance. A progettarla, l’architetto newyorkese Diana Kellogg. «Il progetto è stato avviato da Citta, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro che si occupa di sviluppo scolastico e sanitario nelle zone difficili del mondo e copre 35 600 metri quadrati di terreno donato da Manvendra Singh Shekhawat, il proprietario del Suryagarh Palace, il celebre hotel di lusso alle porte del deserto di Jaisalmer», spiega Diana Kellogg che ha prestato la sua opera pro bono, in collaborazione con artigiani e maestranze locali. A colpire subito è la struttura: un ovale perfetto in arenaria locale. «In molte culture l’ovale è simbolo di femminilità e, una volta che ho iniziato a disegnare, mi ha anche ricordato la formulazione dell’infinito. In questo caso l’ovale è dato da due ellissi sovrapposte con, sul tetto, i pannelli solari. Tutto è pensato per la sostenibilità e il risparmio delle risorse: al centro del cortile c’è una cisterna centrale per la raccolta dell’acqua, mentre i pochi alberi da frutto sono stati conservati e circondati da gradini per far sedere all’ombra le ragazze. Altezza dei soffitti e finestre oblique, infine, garantiscono ventilazione e protezione dal caldo in modo naturale in tutte le aule». Un progetto che, oltre a preservare le ragazze dall’analfabetismo e dai matrimoni precoci (pratica particolarmente diffusa nelle zone rurali), diventa anche motore per la migrazione inversa: la comunità locale è coinvolta nella manutenzione della scuola, e non è costretta a cercare lavoro a Mumbai.

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Il cohost west bund di shanghai si trova nei pressi dell’orto botanico

f51 è il primo skatepark multipiano al mondo, il prezzo simbolico è una sterlina l’anno.

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Nella “città che cambia” anche il cohousing è una delle soluzioni per ottimizzare le risorse e migliorare la socialità. Una scelta che affonda le radici in un doppio cambio di rotta: da una parte una popolazione con sempre più single, più anziani e meno bambini, dall’altra una diffusa consapevolezza riguardo le tematiche ambientali. Ecco quindi nascere quartieri, condomini o unità domestiche destinate a società collaborative più o meno grandi, come Cohost West Bund al 218 di Baise Road a Shangai, che da vecchio hotel nel distretto artistico West Bund Culture Corridor è stato trasformato in cohousing da AIM Architecture, diventando uno dei primi esperimenti di questo tipo in Cina. Qui gli abitanti dei 66 alloggi – dai monolocali di 33 metri quadrati fino a trilocali di 127 – acquistano (o meglio prendono in affitto per periodi brevi o lunghi) un “pacchetto chiavi in mano”: gli interni sono arredati con elegante semplicità e nei minimi dettagli, con aria condizionata e wi-fi già settati. E tutti i costi dei servizi – pulizie, lavanderia, biblioteca, palestra e community manager – vengono addebitati a fine mese in un’unica fattura come “spese di condominio”. Le aree comuni, che naturalmente sono aperte 24 ore su 24, permettono di socializzare, connettersi o rilassarsi al di fuori del proprio appartamento, perché comprendono cucina comune, biblioteca, sala cinema, palestra, terrazze, sale da pranzo comuni e lavanderia. Non si tratta di una soluzione economica (l’affitto comprende tutto, anche la pulizia e il cambio settimanale della biancheria), ma finisce per generare nuove forme di economia e nuovi profili professionali, mentre nascono specifiche piattaforme digitali per facilitare i processi collaborativi e agevolare l’incontro tra domanda e offerta. 

Punta sulla “rigenerazione generazionale”, invece, il progetto F51, così chiamato per la sua posizione a Folkestone, nel Kent: il primo skatepark multipiano al mondo. Commissionato dal filantropo Sir Roger De Haan, in origine doveva essere un parcheggio multipiano, poi è diventato quello che tutti volevano: uno skatepark su più piani. «Da anni Folkestone ha avviato un piano di rigenerazione urbana per rendere nuovamente attrattiva questa località balneare sulle coste del Kent», spiega Aaron Bright, architetto associato allo studio inglese Hollaway, firmatario del progetto. «In questo caso abbiamo un edificio unico nel suo genere, che si sviluppa con una forma ovale quasi interamente chiusa e che si eleva per tre piani allargandosi al di sopra del livello vetrato del piano terra, dove si trova la caffetteria». Ma F51 è molto più di un’impresa ingegneristica. «Situato in uno dei rioni più disagiati della città, questo parco indoor offre un abbonamento per appena una sterlina al mese perché la sua missione è dare ai giovani di Folkestone un posto che possano sentire proprio, dove ritrovarsi e divertirsi». 

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a kitakami, in giappone, è stato ricavato un centro pubblico di assistenza per l’infanzia da un centro commerciale. 4000 mq ridisegnati dallo studio unemori teco.

E se ad alimentare il senso di appartenenza di una comunità e la coesione sociale è anche la conoscenza delle proprie radici, vale la pena di andare a Washing-ton dove, nel 2016, il Presidente Obama ha inaugurato il 19° museo della Smithsonian Institution di Washington, e cioè il National Museum of African American History and Culture (Nmaahc), primo museo americano dedicato esclusivamente alla documentazione della storia e della cultura afroamericana. Progettato dall’architetto inglese di origine ghanesi David Adjaye in team con Phil Freelon, Max Bond e SmithGroup, il Museo copre una superficie di 37 000 mq su sette piani, di cui due interrati. Si fa notare per la struttura composta da tre solidi sovrapposti a forma di piramide tronca rovesciata e per lo spettacolare rivestimento in bronzo traforato, che rimanda all’estetica dell’artigianato tradizionale afroamericano e svolge la funzione di frangisole, modulando la luce naturale che entra nell’edificio dalle vetrate a tutta altezza. Il museo vanta una collezione di 37 000 pezzi tra opere d’arte, documenti storici, fotografie, stampe, libri, riviste e quotidiani, fotografie, mobili, oggetti per la casa, vestiti ed accessori, strumenti musicali e registrazioni audio, suddivisi in 15 sezioni tematiche. E offre ai visitatori una sorta di viaggio nel tempo: si parte dal 1400 per arrivare alla deportazione degli africani in America e alla segregazione, fino alle moderne battaglie per i diritti civili e ai protagonisti dello sport, della musica, dell’arte e della letteratura. Più che attraverso le nuove costruzioni, però, l’architettura sociale punta sulla rigenerazione o riconversione di vecchi edifici. Come è successo nella città di Kitakami, prefettura di Iwate in Giappone: i primi due piani di un centro commerciale di otto piani sono stati trasformati in un innovativo centro sanitario e per l’assistenza all’infanzia. In tutto, 4 000 mq che lo studio di architettura Unemori and Teco Architects ha trasformato in uno spazio accogliente e aperto alla città, con soffitti e pavimenti ondulati, e ponti sospesi che agli occhi dei bambini assomigliano a un grande parco giochi coperto. Ma che in realtà contiene anche spazi pubblici per le riunioni e una grande piazza interna polivalente e aperta al pubblico, con la caffetteria, uno spazio espositivo e angoli per sedersi, che hanno trasformato questo luogo in un punto di riferimento per gli abitanti della città.

Il complesso utopia unisce la biblioteca e altri servizi pubblici all’accademia di arti performative.

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il nmaahc è il primo museo americano dedicato solo alla storia e alla cultura afroamericane

«Il nostro è stato sia un progetto urbano sia un progetto architettonico», spiega Vincent Panhuysen, socio dello studio Kaan Architecten di Rotterdam che ha formato Utopia, così si chiama il complesso che riunisce la Biblioteca e altri servizi pubblici all’Accademia di Arti Performative della cittadina belga di Aalst. «Parliamo di una bellissima città medievale, con molte stradine e piccole piazze: con il nostro progetto volevamo prima di tutto aggiungere un nuovo posto in quella rete. E offrire uno spazio pubblico culturale alla città, mantenendo un’armonia visiva con l’imponenza architettonica ottocentesca della vicina Pupillenschool, in mattoni rossi. Così la nuova aggiunta è rivestita da mattoni piatti in un’argilla locale color rosso-arancione che si collega bene al patrimonio medievale di Aalst. Con in più, all’interno, una nuova piazza coperta, un nuovo spazio pubblico per la città e i suoi cittadini». L’interno, su tre piani, è un mix di pubblico e privato, con le strutture della scuola disposte attorno a un vuoto centrale, senza colonne, di cemento, dove è collocata la biblioteca con, attorno, un auditorium, un ristorante, un laboratorio per i giovani, un teatrino per la lettura con i bambini e una piccola sala concerti. Al primo piano, invece, ci sono le aule, le sale prova e un auditorium. «Le sale della musica e del teatro sono isolate all’interno di scatole acustiche realizzate utilizzando pavimenti in cemento sospesi, doppi vetri e porte insonorizzate. Ecco perché può convivere lo spazio tranquillo di una biblioteca con gli spazi molto rumorosi della scuola di arti performative. E questo ha permesso di creare un luogo dove si incontrano persone di generazioni diverse».

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