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African power. Emancipazione e sostenibilità

Il critico d’arte Calvin Tomkins, firma storica del magazine The New Yorker, lo ha espresso così: “Un moderno Tocqueville direbbe che viviamo in un’epoca di ascesa dei Neri”. Eppure scrive dall’America, Paese dove, per sua stessa ammissione, gli afroamericani lottano ogni giorno contro discriminazione e ingiustizie. L’influenza “dei Neri”, tuttavia, è sempre più evidente in molti campi. È vero. Lo scorso anno, per fare un esempio, un’istituzione come il MoMA di New York ha riunito architetti, designer e artisti afroamericani nella mostra Reconstructions: Architecture and Blackness in America, che provava a reimmaginare l’architettura statunitense in una prospettiva più inclusiva. Ovunque nel mondo le gallerie d’arte aggiungono artisti neri all’elenco dei loro autori, mentre pittori come Jean-Michel Basquiat e i viventi Amoako Boafo, Kerry James Marshall e Amy Sherald raggiungono cifre record alle aste e nelle fiere. Merito anche del movimento Black Lives Matter, fondato nel 2013 e salito alla ribalta dopo il brutale omicidio di George Floyd, nel maggio 2020, che, oltre a battersi per i diritti civili e contro il razzismo, contribuisce ad affermare la centralità delle espressioni della black culture all’interno del sistema mondiale.

La Biennale d’Arte di Venezia, la più antica e prestigiosa esposizione internazionale di arte attuale, ha premiato quest’anno le artiste nere donne, con i due Leoni d’Oro assegnati a Sonia Boyce, per il Padiglione britannico, e a Simone Leigh, prima afroamericana a rappresentare gli Stati Uniti. Proprio Simone Leigh ha raccontato nel corso di un’intervista di essere stata a lungo influenzata dalle teorie femministe.

the colour of the climate crisis: fábio setti e tamara dos santos

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the colour of the climate crisis: pimchanok chaiphet

Le sue sculture, molte delle quali di grandezza monumentale, realizzate in bronzo, ceramica e rafia, raffigurano infatti corpi di donne nere – corpi “resilienti” li chiameremmo oggi – e attingono alla cultura vernacolare africana per parlare di razzismo, colonizzazione ed emancipazione. Leigh, che è nata a Chicago da genitori giamaicani, ha spiegato così la genesi di alcune sue opere in mostra al Padiglione statunitense, intitolato Sovereignty: «Penso che ci sia un filo conduttore in questa esposizione che riguarda il souvenir, l’idea che ci piace portare altri mondi nel nostro. Il souvenir è un oggetto in apparenza innocuo che in realtà si è rivelato devastante». Di qui la scelta di dotare il padiglione di tetto di paglia e pali di legno per puntare il dito contro l’Esposizione Coloniale Internazionale di Parigi del 1931, presentando anche, sotto forma di sculture, The Wilde Woman of Aiken – foto ricordo scattata nel 1882 ad Aiken, nella Carolina del Sud, in cui una giovane afroamericana veste i panni di Oscar Wilde – e l’immagine, altrettanto razzista, della donna nera che lava i panni al fiume, che ancora alla fine del XIX secolo era diventata una tipica cartolina della Giamaica.

Il tema del razzismo attraversa inoltre la mostra itinerante The Colour of the Climate Crisis e si connette con quello dell’emergenza climatica. Secondo un articolo della giornalista e attivista Minnie Rahman pubblicato sulla piattaforma Do The Green Thing – articolo che ha poi ispirato il progetto espositivo in questione – le popolazioni dell’Africa subsahariana (come pure dell’Asia meridionale) saranno nei prossimi dieci anni le più colpite dai cambiamenti climatici, sebbene siano anche le meno responsabili. The Colour of the Climate Crisis usa il linguaggio dell’arte e della creatività per indurre le persone a vivere in modo più sostenibile e riunisce 24 autori, non solo neri – Selina Nwulu, Eddie Opara, Ngadi Smart, Jacqui J. Sze e Wilfred Ukpong, per citarne alcuni –, che nei loro lavori esplorano il rapporto tra crisi ambientale e discriminazione razziale. Presentate per la prima volta in concomitanza con la COP26, l’ultima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, le opere formano oggi una mostra digitale permanente visitabile al sito thecolouroftheclimatecrisis.art, in attesa di essere esposte a Londra e New York tra la fine del 2022 e il 2023. A riflettere sull’emergenza ambientale, e in particolare sull’impatto dei rifiuti sul pianeta ci ha pensato pure il designer e attivista sudafricano Porky Hefer.

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la collezione di mobili homecoming di mpho vackier è realizzata anche grazie al contributo di imprese e maker locali. I nomi dei pezzi riprendono le parole che definiscono l’ambiente domestico e i sentimenti che ruotano attorno a esso in diverse lingue indigene del continente africano.

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tra le opere di simone leigh per il padiglione degli USA c’è una scultura ispirata a una maschera rituale dell’africa

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piovra gigante di porky hefer fatta con mozziconi di sigaretta in feltro riciclato.

Nato nel 1968, non nasconde il debito verso il Radical Design: i suoi lavori spaziano dalle sculture su larga scala ai mobili e agli oggetti il cui significato va oltre le apparenze, mentre la loro realizzazione vede il contributo degli artigiani del posto. Per la National Gallery of Victoria di Melbourne, in Australia, ha creato Plastocene – Marine Mutants from a disposable world, cinque mostri marini, tra cui una piovra gigante, fatti con materiali di scarto che riproducono l’aspetto di mozziconi di sigaretta, reti da pesca, cannucce, cotton fioc e altri detriti della nostra società iperconsumista (come se non fossero già abbastanza spaventosi). Hefer non è il solo a sostenere con le sue creazioni l’economia locale: un altro progettista, Peter Mabeo, originario del Botswana, realizza mobili su misura che celebrano la cultura e le tradizioni africane. Oltre a coinvolgere gli artigiani della regione, Mabeo Furniture – lo studio che ha fondato nel 2006 – annovera collaborazioni con designer di fama internazionale, da Claesson Koivisto Rune a Patricia Urquiola e Inès Bressand. Tanto da aver convinto un’azienda come Fendi a produrre Kompa Collection (dal nome del più longevo artigiano di Mabeo), un’edizione limitata di arredi che reinterpreta creativamente i codici estetici del marchio, utilizzando materiali naturali come argilla, legno Panga Panga e foglie di palma e spingendo le tecniche tradizionali verso nuove direzioni.

I principi della sostenibilità, dell’artigianalità e dello sviluppo che caratterizzano i progetti di Mabeo sono presenti inoltre nel lavoro di Mpho Vackier, fondatrice dello studio TheUrbanative con sede a Johannesburg, in Sudafrica. Selezionata come talento emergente da Design Indaba, festival annuale e piattaforma online dedicati alla creatività non solo africana, Vackier crede nel dialogo tra culture ed è convinta che la collaborazione sia il futuro del design. «Se mettiamo insieme un designer di mobili, uno di gioielli e un altro di moda e chiediamo loro di realizzare una sedia, ecco che si crea la magia. L’incontro di diversi modi di pensare è l’ingrediente segreto», afferma. Anche per lei progettare vuol dire saper raccontare storie autoctone, ma il design deve soprattutto migliorare la vita delle persone.

dopo la laurea in interior design, mpho vackier ha fondato lo studio theurbanative.

a sacred future del fotografo keniota rogers ouma (the colour of the climate crisis).

Homecoming è il nome che ha dato alla sua più recente linea di arredi che combina la funzionalità e le qualità estetiche del design europeo Mid-Century con tessuti di matrice culturale africana e forme, colori e texture  che richiamano l’architettura vernacolare di Nigeria, Camerun, Niger e Mali. Alla base un’idea globale di casa: «quella che attraverso i social media, il lockdown ci ha permesso di condividere, facendoci scoprire che ciò che tutti noi desideriamo e di cui abbiamo veramente bisogno non è che sicurezza, comfort e senso di appartenenza».

Dalla Nigeria arriva invece la Design Week Lagos. Istituita nel 2019, la manifestazione – la più grande del suo genere in Africa occidentale – raduna progettisti, architetti e aziende del continente con l’obiettivo di trasformare Lagos in una delle capitali del design mondiale. La sua fondatrice, la nigeriana Titi Ogufere, già direttrice dell’agenzia Essential Interiors, ha dichiarato che l’evento nasce dalla mancanza di riconoscimento del potenziale creativo dell’Africa. «La mia missione è mettere in collegamento le comunità, presentare i talenti e costruire un’industria per mostrare al mondo quanto è rilevante il nostro lavoro», fa sapere. L’ultima edizione, dal titolo Design Revolution, ha visto la partecipazione di oltre 5 000 designer africani, con una mostra di 15 studi, una tavola rotonda promossa da IFI (International Federation of Interior Architects/Designers) e un premio rivolto agli studenti. Ma una delle novità è anche la docuserie Netflix intitolata Made by Design, dedicata proprio alla progettazione in Africa. Prodotta e diretta dalla stessa Ogufere sotto la regia di Abiola Matesun, due volte vincitore del premio Emmy, la prima stagione traccia una panoramica del lavoro di 13 autori nigeriani, tra i quali si trovano Lani Adeoye, Osaru Alile, Papa Omotayo e Tosin Oshinowo. Ogufere spera che la visione attiri ulteriormente l’attenzione sul vivace profilo creativo del paese: «C’è una tale varietà di talenti qui che la serie ne scalfisce solo la superficie».

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