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Never Waste a Good Crisis

Un titolo programmatico, Never Waste a Good Crisis: mai sprecare una buona crisi. Quella ambientale, che rischia in pochi anni di pregiudicare la vita dell’uomo sulla terra. Natasha Berting, Edith Ault, Daphne Schmidt, Alison Pasquariello, autrici del volume, la illustrano così: «Le discariche nel mondo vedono crescere la spazzatura di circa 3 mln di tonnellate al giorno. Ogni minuto, l’equivalente di un camion di plastica entra in mare. Nel frattempo, la stessa quantità di vestiti, molti in ottime condizioni o addirittura nuovi, viene buttata via». Dunque cosa c’è di bello in questa crisi? C’è che possiamo fare meglio di così, almeno a sentire i designer. Il loro progetto nasce nel 2011 sotto il nome di What Design Can Do. Messo a punto dal gruppo De Designpolitie, ha in seguito coinvolto altri progettisti con lo scopo di ripensare la ragione della propria professione e il design stesso. Perché dietro la capacità di approfittare di una crisi planetaria, c’è una filosofia semplice quanto rivoluzionaria: usare il design per cambiare il modo di pensare e di produrre gli oggetti, modificando di conseguenza il modo di usarli e consumarli. Perché i designer sono nella posizione, forse unica, di inventare il futuro. «Purtroppo molti designer sono parte del sistema che stiamo cercando di cambiare», spiegano. E aggiungono: «Quando creiamo oggetti desiderabili un giorno e da buttare il successivo, contribuiamo a un ciclo senza fine». Ecco l’occasione, allora: ripensare il ciclo di consumo. È il senso di Never waste a good crisis, ossia non sprechiamo gli sprechi, non rifiutiamo i rifiuti. Il libro raccoglie 31 idee creative per ridefinire la nostra relazione con quanto scartiamo, ma anche per ridefinire il design come strumento rigenerativo, invece che meramente produttivo o distruttivo. Capace, cioè, di creare una realtà migliore, che funzioni sia per le persone sia per i Pianeta. Come ha dichiarato Bruce Mau, graphic designer canadese, «Lo spreco l’ha creato l’uomo. Così come lo ha inventato, ora può “dis-inventarlo”».

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i tessuti a colorazione naturale del coelicolor project, fondatrice del gruppo faber future, che permette agli streptomiyces coelicolor di produrre il proprio pigmento blu direttamente sui tessuti.

Gli abiti di the slum studio sono realizzati con scarti del fashion system.

Abbigliamento

Qualche esempio. Le conseguenze del fast fashion sono note, spiega Sel Kofiga, l’artista che ha fondato The Slum Studio. In Ghana ha dato vita a una produzione di abiti creati con scampoli di seconda mano derivati dai ben 150 mld di pezzi prodotti all’anno dal sistema della moda globale. Un sistema le cui storture non esita a stigmatizzare: «Se abitate nel Nord del Pianeta, non potete non sapere che gli abiti donati finiscono in Africa», dice denunciando una filiera poco trasparente, che rimette in circolo a prezzi stracciati abiti che dopo poco finiscono nelle discariche locali. Anche il processo industriale legato alla tintura dei tessuti ha un ciclo altamente inquinante, sia nei Paesi poveri sia in quelli ricchi. Natura e tecnologia, però, possono essere un mix risolutivo. Natsai Audrey Chieza è alla testa del gruppo Faber Future, un team di biodesigner  che lavora tra lo Zimbabwe e il Regno Unito, che ha individuato batteri capaci di colorare naturalmente i tessuti. Gli Streptomyces coelicolor, così si chiamano, infatti, se allevati su superfici tessili, producono un pigmento blu. È nato così Project Coelicolor che utilizza il colorante naturale (virato anche in tonalità di viola, rosa e rosso) per texture uniche, ma impiegando quantità di acqua ben 500 volte inferiori a quelle solitamente richieste dai processi di colorazione industriali.

weedware e bio skin sono polimeri biodegradabili da usare come “plastiche”.

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una piastrella in carbonio riciclato del gruppo indiano carbon craft design: riduce l’impatto dei gas serra sul climate change.

Ceramiche

Sempre parlando di materiali e processi inquinanti, al No Waste Challenge, un Contest internazionale messo a punto nel 2021 da What Design Can Do al quale hanno partecipato oltre 1400 idee creative, due tra i progetti vincitori mixano hi-tech e tradizione. Il gruppo indiano Carbon Craft Design, per esempio, realizza piastrelle di ceramica utilizzando carbonio riciclato grazie a un mix di tecniche tradizionali e nuove tecnologie capaci di sfruttare un impianto di pirolisi dove si raccolgono rifiuti in carbonio che in un secondo momento vengono mescolati con altri materiali naturali. In questo modo si risparmiano 25 kg di CO2 che altrimenti sarebbero immessi nell’atmosfera ogni metro quadrato di piastrelle. Packing Up Pfas di Emy Bensdorp, invece, punta il mirino sulle Pfas, sostanze perfluoroalchiliche utilizzate dagli Anni 50 per impermeabilizzare dall’acqua e dai grassi tessuti, tappeti, pelli, insetticidi, schiume antincendio, vernici, contenitori per il cibo, cere e detersivi. Le Pfas ricoprono soprattutto pentole e tessuti tecnici e risultano presenti nel 90% del suolo olandese. Bensdorp, quindi, ha inventato un processo di rigenerazione in cui l’argilla inquinata viene trasformata in mattoni di ceramica colorati e riciclabili.

Plastiche

Se è vero che dei polimeri non riusciamo più a fare a meno, è vero anche che potrebbe essere ottenuto da materie prime non inquinanti, come le alghe. Lo dimostrano gli olandesi Eric Klarenbeek e Maartje Dros che con il francese Atelier Luma hanno messo a punto weed-ware, un biomateriale simile alla plastica, utilizzabile per stampare qualunque cosa, dai flaconi per lo shampoo ai mobili. La lavorazione comincia in mare dove le alghe vengono raccolte da coltivatori locali che le essiccano e lavorano. In Islanda la designer Valdís Steinarsdóttir, invece, utilizza scarti animali delle macellerie e delle fattorie locali, in particolare pelle e ossa, per realizzare la sua Bio Skin, una pellicola trasparente per conservare gli alimenti, che si scioglie nell’acqua ed è biodegradabile in poche settimane come rifiuto.

totomoxtle, la superficie sostenibile creata con foglie di di mais messicano

mimic touch, grazie a un gel bioreattivo, segnala se l’alimento è edibile o meno.

Alimenti

A proposito di conservazione degli alimenti freschi, gran parte dello spreco alimentare è dovuto alle date di scadenza indicate sulle confezioni. Stando al mercato inglese, per esempio, pare che il 60% del cibo gettato sia commestibile. Così Mimicalab (Lituania e Inghilterra) ha messo a punto un’etichetta intelligente, capace di mostrare quando inizia il processo di deterioramento del prodotto. Si chiama Mimic Touch ed è dotata di un gel bioreattivo che cambia colore e altera la superficie dell’etichetta quando l’alimento va buttato, riducendo lo spreco alimentare del 50% nei supermercati e del 63% nelle case. Dalle Filippine invece, arriva AuReus, una pellicola fotosensibile realizzata con gli scarti di vegetali, capace di produrre energia pulita. Il film, composto di particelle luminescenti, trasforma i raggi UV in fotoni e può ricoprire interi edifici trasformandoli in centrali solari. Mentre in Messico un nuovo materiale creato con le foglie delle pannocchie, sostiene le coltivazioni di specie autoctone di mais. Si chiama Totomoxtle e lo ha messo a punto Fernando Laposse che nel 2016 ha realizzato una superficie per le impiallacciature che conserva tutte le varianti cromatiche del granturco locale. 

Elettronica

Computer, telefoni, tablet, stampanti e componenti elettronici sono alla base del lavoro dello studio Formafantasma (Italia e Olanda) con il progetto Ore Streams, una riflessione sul ruolo che il design può svolgere nelle attività di riciclo di device hi-tech, che mostra come i rifiuti elettronici abbiano un impatto enorme sull’ecosistema, dai metalli che impiegano ai componenti. Ma lo studio dei designer Andrea Trimarchi e Simone Farresin propone soluzioni: tastiere, griglie, ventole, pile di cellulari, scheletri di vecchi microonde, oltre all’oro, ferro e alluminio delle schede madri.

Never Waste a Good Crisis presenta il lavoro di What Design Can Do, un gruppo olandese che nel 2011 si è posto la domanda su cosa fare in concreto per cambiare la rotta della crisi climatica planetaria. Ne è nato un contest e un libro che raccoglie le proposte migliori dai designer di tutto il mondo. Di Natasha Berting, Edith Ault, Daphne Schmidt, Alison Pasquariello, è in vendita su whatdesigncando.com a 19,90 €.

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