Believe in Bhutan
Il Bhutan è un piccolo regno dal fascino ancora incontaminato. A uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare scollegato dal resto del mondo. In realtà, conosce talmente bene le regole del gioco da essersi recentemente rivolto a una nota agenzia di branding e di comunicazione londinese, la Mmbp & Associates, per rilanciare la propria immagine coordinata in vista della grande riapertura al turismo di questo finale d’anno.
Nonostante la lontananza da quasi tutto, questo arroccato Paese himalayano di 47 000 kmq, chiuso tra il Tibet e l’India alle pendici della montagna più alta del mondo, attua in campo sociale, economico e ambientale politiche di grande lungimiranza, che ci dimostrano la capacità dei reali, al governo dal 1907, di osservare l’andamento mondiale e… semplicemente di attuare delle scelte differenti da quelle che caratterizzano il nostro approccio occidentale.
Ed è così che il Tourism Council of Bhutan ha affidato il compito di trasformare la filosofia del Paese in un brand nazionale, affidandosi alla sensibilità dei consulenti britannici, con cui condividono sia la lingua (grazie al sistema scolastico gratuito, come seconda lingua parlano tutti inglese), sia un ordinamento politico di stampo monarchico-costituzionale. “Isolati, ma lungimiranti”, questi bhutanesi –penso io –, se per fare una campagna di comunicazione dedicata ai valori nazionali si comportano come se fossero un brand della moda. La storia m’intriga e decido di indagare meglio.
l Bhutan è un Paese dalle molteplici sfumature, anche nel nome. Se originariamente era conosciuto come “terra meridionale delle tenebre”, “terra meridionale del cipresso” o anche “terra meridionale delle quattro vie d’accesso”, il suo nome odierno non è chiaro da dove derivi. Forse, dal sanscrito Bhotant che significa “fine del Tibet” o da Bhu Uttan ovvero “terra alta”. Tra i locali, però, il nome più accreditato è Druk Yul, ossia “terra del drago del tuono”, in quanto si diceva che il tuono fosse il ruggito dei draghi. Sarà perché la bandiera nazionale riporta proprio un drago nel mezzo, sarà perché mi sembra che la storia sia saltata fuori da uno dei romanzi di Harry Potter, decido di adottare anch’io la versione prediletta dai suoi abitanti e di non indagare oltre.
Il Regno del Bhutan ci tende quindi la mano e guardandoci dritto con quei suoi occhi di drago ci dice: “Believe”, credi. Ed in quel “credi” è come se dicesse “fidati di me”, ma anche “fidati di te”, “fidati di quest’era di trasformazione”. Insomma, il claim ci allunga la mano e ci fa salire sul tappeto di Aladdin, portandoci immediatamente nella pancia di quel sogno locale che vuole aspirare a trasmettere un altro modo di vivere. Ed ecco la chiave di lettura di questo Regno diventato famoso negli Anni 70, quando l’allora re Jigme Singye Wangchuck, all’interno della riforma economica che stava attuando, decise di istituire il Gnh, il Gross National Happiness, che potrebbe essere tradotto come una sostituzione del Pil nostrano con la Fil, la Felicità Interna Lorda. Perché la Felicità Interna Lorda è da allora il principio che governa lo sviluppo del Paese, ponendo al centro degli obiettivi i bisogni spirituali, emozionali e materiali degli individui piuttosto che un’arida crescita economica. Conditio sine qua non della felicità umana è uno sviluppo equo, la difesa del patrimonio culturale e l’attenzione alla conservazione dell’ambiente naturale.
A questo punto abbandono le mie letture sul tema e inizio a cercare dei voli in un attacco di commozione e buonumore generalizzato. Oddio vuoi forse vedere che questo Paese buddhista detiene davvero le chiavi della felicità? A salvarmi da quest’estasi di ottimismo, la conversazione con Julien Beaupré Ste-Marie, uno dei due direttori dell’agenzia londinese incaricata del progetto. Mi racconta, infatti, di come si siano tenuti lontano da ogni accenno a questa nomea di “Paese della felicità”, essendosi resi conto che, seppur accattivante, prevedeva troppe interpretazioni. Perché la felicità per un occidentale è un concetto completamente diverso da quella che è la felicità per un bhutanese buddhista, il quale, per esempio, non è tanto legato al possesso di beni materiali quanto alla profondità delle relazioni umane. A far la saggia differenza è anche l’assenza di certezze.
Il regno del Bhutan non promette felicità a nessuno dei suoi cittadini, semplicemente cerca di creare le condizioni perché la felicità individuale possa verificarsi. A questo punto sto già pensando di trasferirmi armi e bagagli e mi metto quindi a cercare come sono le scuole locali. Sul sito dell’educazione bhutanese trovo una pagina che parla di sviluppo olistico e spirituale, di cittadini migliori, di crescita complessiva e di rispetto per la natura. “Ma se mi trasferisco lì dovrò lo stesso pagare i 200 € al giorno della nuova tassa di soggiorno?”, mi chiedo. Perché il Bhutan è un Paese che, da quando si è aperto al turismo nel 1974, ha portato avanti una politica di turismo sostenibile, lavorando in ogni modo per evitare di diventare meta del turismo di massa. E con quella tassa giornaliera, infatti, non lo vedremo mai comparire nelle liste stilate annualmente del portale americano Fodors per indicare i luoghi da evitare se si vuole essere dei turisti responsabili.
Certo il rischio che diventi un parco giochi d’élite esiste e, guarda caso, nel 2016 niente meno che il principe William con la sua Kate sono stati proprio qui in vacanza. Alla fine, però, il fatto di essere diventato il primo Paese al mondo a compensare le proprie emissioni di CO2 mi porta a concludere che, sì, forse non hanno torto. A maggior ragione se si considera che il piccolo regno è schiacciato tra due dei tre Paesi colpevoli delle maggiori emissioni al mondo: la Cina e l’India (il terzo per la cronaca sono gli Usa). E proprio grazie alla strenua difesa del territorio, composto al 70% da foreste, non solo il Bhutan non inquina, ma assorbe l’inquinamento altrui producendo pure energia elettrica e guadagnandosi così quest’anno il titolo di primo Paese Carbon Negative del Mondo. Grazie anche alla complicità di una popolazione poco numerosa, 797 000 abitanti registrati nel 2022, ed estremamente giovane, un quinto della popolazione ha oggi meno di 30 anni, che rappresenta il nuovo Bhutan. Proprio questi giovani sono stati i primi intervistati ed interlocutori della campagna di comunicazione. Una generazione di giovani imprenditori che applicano nuovi metodi all’agricoltura, che sviluppano l’identità biometrica digitale del Paese, che investono negli Nft come strumento di divulgazione dell’arte e dell’artigianato locale. Tra queste iniziative, anche la nuova piattaforma di film Samuh Bhutan, sorta di Netflix locale; ma anche la produzione cinematografica che ha portato al successo di Lunana, il primo film locale a concorrere, nel 2022, agli Oscar come Miglior Film Straniero. E proprio questi incontri, di cui mi racconta Julien Beaupré Ste-Marie, è quanto l’ha maggiormente sorpreso durante il suo soggiorno in loco per cogliere lo spirito del Paese.
Una nazione di giovani che credono nel futuro e in quello che stanno facendo e che, soprattutto, ci invitano a seguirli