
Con la cultura si mangia e Abu Dhabi lo dimostra
A un certo punto della sua giovane storia – giovane se si considera la sua nuova imprevista identità cosmopolita – la saggia Abu Dhabi ha deciso che era il tempo di distinguersi dalla sorella e rivale, l’elettrica Dubai, a due ore di automobile, perché in questi luoghi le distanze si misurano nel tempo trascorso in autostrade a sei corsie per carreggiata a bruciare benzina che costa talmente poco che non vale la pena darsene pena. Dubai la sfrenata, la parvenu, la frivola, epperò finita più volte in bolletta e salvata da Abu Dhabi la secchiona, l’amministratrice, la risparmiatrice. Abu Dhabi è la capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno Stato di 54 anni (nato il 2 dicembre 1971 come federazione di sette emirati: oltre ai due più celebri ci sono ‘Ajman, Fujairah, Ras Al Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaywayn) che occupa una piccola porzione della penisola araba e che per le sue ridotte dimensioni (83 000 kmq, assai meno di un terzo dell’Italia), per la sua trascurabile popolazione (12 mln di abitanti, ma in vorticosa crescita) vanta una posizione sorprendentemente alta in alcune classifiche mondiali: quella della maggior percentuale di abitanti stranieri (più o meno l’88%), per cui è seconda dopo la Città del Vaticano, poi quella degli arrivi internazionali negli aeroporti, del fondo sovrano più pingue, delle tasse più basse, del lusso percepito. A un certo punto Abu Dhabi, dicevamo, ha deciso però di puntare su qualcosa che non faceva parte dello starter kit di un Paese che si è trovato all’improvviso a essere molto più ricco e influente di quanto le sue origini facessero prevedere. Ha scelto di dotarsi di un imponente e pluridecennale masterplan culturale nella convinzione che con la cultura, in fondo, si mangia eccome. Non è altro che una merce universalmente scambiata come tante altre. Certo, si è trattato di un’operazione a freddo, posticcia, e chi lo nega; e noi poveri europei decadenti a storcere il naso, ancora ingenuamente legati come siamo all’idea che il sapere prima si acquisisce, con tempo e fatica, e poi, semmai, si mette a reddito, e non si prenota come una Birkin di Hermès. Ma da decenni ormai le regole del mondo non siamo più noi a deciderle. Ci accontentiamo di avere una certa brand identity dotata ancora di un discreto valore percepito nel mercato globale, finché non avremo più nemmeno quella. E allora saranno, sì, dolori. Abu Dhabi è l’unica città del mondo che può vantare contemporaneamente un Louvre e un Guggenheim, vale a dire i due brand museali più famosi del mondo. Il Guggenheim, per la verità, è ancora in costruzione, lo si vede lì in fondo, nel tipico delirio aggrovigliato e onirico alla Frank O. Gehry, architetto di corte, la forma c’è già tutta, ma le gru ne ritmano il divenire. Il museo è sulla Saadiyat, “l’isola della felicità” a nord dell’emirato, una felicità con il cartellino del prezzo, ma pur sempre una felicità available, disponibile. Per la verità c’è qualcosa di un po’ deludente nel leggere la storia di questo museo, visto che il contratto stipulato dalla città con la Solomon R. Guggenheim Foundation di New York risale all’8 luglio 2006, e che 19 anni (finora) per una costruzione certo imponente (parliamo di 30 000 mq complessivi) nella terra in cui ogni idea è plasmata a proprio piacimento dall’homo faber e da eserciti di lavoratori indiani-bengalesi-egiziani, è un tempo irragionevole e incomprensibile. Ma che volete, anche gli emiri piangono e su questo cantiere grava una piccola maledizione subtropicale: problemi con i fornitori, qualche pasticcio fiscale, la crisi finanziaria del 2008-09 che ha distratto Abu Dhabi costringendola a intervenire in salvataggio della sorella Dubai. E poi dar vita all’utopia visionaria Gehry che ha fatto di questo progetto il suo testamento in vita, il caos che si rigenera nell’ordine, ha posto sfide ingegneristiche non banali. Ma quando aprirà, e ora davvero non manca più molto, il Guggenheim Abu Dhabi sarà lo stupor mundi, il museo più bello sul pianeta Terra. Forse. Di certo il più stupefacente. E la collezione? Sarà improntata allo scambio tra culture e non alla loro competizione, ci fanno sapere. Ma in questo caso la scatola conta molto di più della merce in essa contenuta.

così apparirà il guggenheim abu dhabi: apertura prevista entro la fine dell’anno.

la cupola a ricami del louvre abu dhabi, edificio di jean nouvel inaugurato nel 2017.
Sognando Parigi
È aperto dal 2017, invece, il Louvre Abu Dhabi, sulla stessa Saadiyat, il primo Louvre fuori dalla Francia e quando la cosa si fece i francesi bartalianamente si incazzarono, salvo poi accettare vagonate di dollari tra diritti di utilizzo del marchio, prestiti onerosi di opere, consulenze e organizzazione di mostre, e poi qui siamo sull’isola della felicità, tutti devono poter sorridere alla fine, parbleu! Il Lad, rispetto alla muscolarità arrogante del Guggenheim, è un mirabile esempio di leggerezza ed eleganza, ispirato ai giochi di penombra dell’architettura araba, un’oasi biancheggiante sospesa tra terra, acqua, cielo. A rubare lo sguardo è in particolare la grande cupola schiacciata progettata da Jean Nouvel, un cielo di 180 m di diametro che con un gioco di ricami ingegneristici genera 7 850 stelle visibili dall’interno e dall’esterno. Un portento di stilizzazione, che rende lieve una massa di acciaio del peso di 7 500 t, lo stesso della Torre Eiffel ma con molta meno boria di questa. All’interno si ripercorrono millenni di civiltà artistiche in un Bignami studiato per masse in ciabatte, ma l’effetto è comunque garantito. Se è un enorme mall della cultura, lo è in un modo avvincente. Abu Dhabi la colta non smette mai di studiare e di incorniciare i suoi titoli di studi. Il distretto della cultura di Saadiyat, vero repertorio di archistar, da pochissimo include il team LabPhenomena, un inconsueto progetto artistico multisensoriale di esposizioni trasformative che coinvolgono il visitatore e lo costringono a rivedere il proprio modo di dialogare con l’ambiente circostante. E quando tutti i progetti saranno ultimati, conterà il clamoroso Centro per le arti performative disegnato dalla scomparsa architetta anglo-irachena Zaha Hadid (1950-2016), un gesto scultoreo fluido e filante che comprenderà una sala concerti, un teatro dell’opera e cinque teatri; poi il Museo marittimo progettato da Tadao Ando, e infine lo Zayed National Museum progettato da Foster+Partners dedicato al venerato nonché defunto sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan (1918-2004), vero padre della patria.

il zayed national museum (foster+partners).

il teamlab phenomena, progetto museale di natura artistica, ricco di esposizioni immersive che coinvolgono tutti e cinque i sensi del visitatore.
Musica, maestri
Abu Dhabi si propone anche potentemente come capitale mondiale della musica. Inserita nel 2021 dall’Unesco tra le City of Music, le città creative che fanno dell’arte sonora uno strumento di connessione e sviluppo urbano, ha una precisa strategia che passa attraverso la conservazione e la valorizzazione della fiorente cultura musicale tradizionale (l’oud, l’haban, il liwa) e al contempo persegue l’abbattimento delle barriere tra la musica occidentale più o meno commerciale e quella del resto del mondo. Si va quindi dal Bait al Oud, un centro studi sulle pratiche e gli strumenti musicali emiratini, alle rassegne musicali come l’Abu Dhabi Festival, che ogni anno porta qui alcune delle migliori orchestre in circolazione, oltre a solisti, performer, gruppi e interpreti di ogni genere di musica da qualsiasi parte del mondo. Abu Dhabi ospita anche una delle sedi della Berklee, il più grande college indipendente di musica contemporanea che ha la casa madre a Boston, Massachusetts. La sede emiratina è il più importante punto di riferimento nella formazione musicale contemporanea per quella scalpitante parte di mondo che corrisponde al Medio Oriente, al Nordafrica e all’Asia meridionale. Da Abu Dhabi ad Abu Dab c’è il tempo di un battito.