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Detroit è un laboratorio

Per far breve una storia lunga, gioco il jolly e chiedo un sunto dell’epopea musicale cittadina direttamente all’Ace (Arts, Culture and Entrepreneurship), l’ufficio delle Arti, della Cultura e dell’Imprenditoria di Detroit. Risponde Rochelle Riley che, come numero uno dell’Ace, in pratica è il direttore artistico della città: «Detroit è sinonimo di musica da sempre. Negli Anni 40 e 50, tutti i grandi nomi venivano a esibirsi a Paradise Valley, la zona più nera della città. Poi Berry Gordy ha fondato nel 1959 l’etichetta discografica Motown, trasformando studenti delle scuole in star». E non solo. Come puntualizza l’artista multidisciplinare Kobie Solomon: «Se diamo un’occhiata a quanto lontano hanno viaggiato le increspature di quella musica, le persone che ha ispirato, i movimenti che ha alimentato, le storie che ha condiviso attraverso le generazioni e i continenti, possiamo dire che la Motown ha cambiato il corso della società». Passato glorioso, ma che cosa rimane? Riprende il filo Rochelle Riley: «Oggi Detroit è una delle capitali dell’hip-hop. La sua reputazione di fucina di talenti si è consolidata grazie al produttore Che Pope, che ha aperto qui uno studio per scoprire e lanciare i big del futuro». Lo studio in questione è Wrkshp, fondato l’anno scorso da Pope, che ha lavorato con Kanye West, Jay Z ed Eminem. Grazie a Eminem, Pope ha imparato ad amare quello spirito “Detroit contro tutti” che l’ha portato a scegliere la città del Michigan come base. Va detto che nella decisione ha influito pure la partnership con Dan Gilbert, il miliardario che ha fatto di Detroit l’epicentro dei suoi investimenti. Altri pigmalioni rap in attività sono Sterling Toles e Nick Speed, che per celebrare il mezzo secolo di vita dell’hip-hop ha appena creato Nix Electronix Hh-50, giradischi portatile in edizione da 50 pezzi. Roba da collezione. 

detroit

il festival movement all’hart plaza

un’opera murale nel vicolo the belt.

Negli Anni 80, Derrick May, Juan Atkins e Kevin Saunderson (nome collettivo, Belleville Three) sintetizzano la Detroit Techno. In città ha il suo museo, (Exhibit 3 000), il suo festival (Movement) e viene tenuta viva con debite varianti da personalità come Theo Parrish, la cui consolle ha i piedi ben piantati nel jazz, e astri in ascesa come Henry Brooks. Il suo set a Movement 2023 è stato così definito da Your Edm (pubblicazione di riferimento nel mondo della musica elettronica): “Due ore di ritmi brutali con sfumature oscure contrastate dal suo atteggiamento giocoso dietro i piatti. Techno trainante e ad alta intensità, ipnotica e sofisticata”. Ma non c’è solo la musica, ci tiene a precisare Rochelle Riley: «Detroit è nella Top Ten delle città americane per la street art. Sul nostro sito (detroitartsandculture.com, ndr) c’è una mappa che indica l’ubicazione dei lavori, ed è in continuo aggiornamento. Stiamo lavorando alla trasformazione di nove strade cittadine in spazi di aggregazione con l’arte protagonista». In attesa che siano pronte, c’è The Belt, vicolo di Downtown diventato un museo all’aria aperta grazie alla galleria d’arte Lsc (Library Street Collective). «I progetti pubblici su larga scala», descrivono il lavoro che fanno con Lsc i fondatori Anthony e JJ Curis, «sono un aspetto essenziale della programmazione della galleria, che porta l’arte contemporanea nella comunità di Detroit». Così, sui muri di The Belt sono esposti, tra gli altri, dipinti di Nina Chanel Abney, i suoi lavori fanno parte della collezione permanente del Whitney Museum of American Art di New York, e di Shepard Fairey, aka Obey, reso celebre dal manifesto Hope, simbolo della corsa alla Casa Bianca di Barack Obama nel 2008. Aperta parentesi: due indirizzi storici di arte en plein air in città sono The Heidelberg Project, con la sua casa a pois, e l’African Bead Museum dell’artista Olayami Dabls. Chiusa parentesi. Un vicolo andava stretto alle ambizioni della Lsc, che oggi è impegnata nella creazione di un intero quartiere per l’arte, l’East Village Cultural Art District (del quale abbiamo parlato nelle pagine precedenti). Domanda d’obbligo ad Anthony e JJ Curis: chi sono i nomi da tenere d’occhio tra i nuovi artisti di Detroit? «Jason Revok, Jamea Richmond-Edwards e Paul Verdell stanno già conquistando il mondo dell’arte». Revok, che viene dalla street art e ha appena tenuto una personale al Museo d’Arte Contemporanea di Detroit, rivendica la sue radici: «L’arte per me era grafica da skateboard e copertine di dischi». Richmond-Edwards riassume la sua musa così: «Le mie composizioni pittoriche e la tavolozza dei colori sono ispirate all’estetica della moda hip-hop a Detroit negli Anni 90”. Paul Verdell confessa: «Il mio lavoro è portare il paesaggio sulla tela attraverso l’astrazione», e lo fa con una tecnica mista di colori a olio, pastelli e matite.

l’artista jason revok nella galleria lsc

Library Street Collective

Altro recupero architettonico collegato all’arte è rappresentato da Dreamtroit. In un’ex stabilimento del quartiere di North West Goldberg, zona in pieno boom, si stanno realizzando alloggi a prezzi accessibili e spazi per organizzazioni artistiche e culturali. Menti del progetto, Matthew Naimi di Recycle Here!, ricicleria cittadina, e Oren Goldenberg, autore della web serie Detroit _(blank)_ City, un’opera ad alto tasso satirico e surreale tanto che, quando chiedo a Oren di definire il suo lavoro, mi aspetto di tutto. La risposta arriva in terza persona: «Oren Goldenberg è un videoartista, che si autoidentifica come produttore. Esplora lo smantellamento del settore pubblico, sovverte l’assunto e crea catarsi realizzando video, organizzando feste da ballo o producendo collaborazioni uniche tra artisti». Alla mia richiesta di entrare più nel dettaglio, incalza: «Dirige anche la società Cass Corridor Films e sta ultimando la pellicola There is No Detroit». Mi fa vedere il trailer. Un ritratto della città e dei suoi abitanti onirico, crudo, struggente. Si conclude con la frase “sembra che tu sia venuto nel posto giusto”. 

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