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Passaporti vendonsi, al supermarket dei Paesi

Nel 2010 Gary Becker, docente all’Università di Chicago e Nobel per l’economia, avanzò una proposta per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina: vendere la cittadinanza americana per 50 000 $. A suo dire, il costo avrebbe garantito l’ingresso nel Paese a persone giovani, ambiziose e determinate: le sole in grado di racimolare la cifra o di poterla restituire una volta varcato il confine. Becker fu irriso e la sua idea liquidata. Oggi, invece, per ottenere l’agognata Green Card a stelle e strisce non servono più particolari caratteristiche, ma semplicemente… più soldi: 500 000 $ per la precisione, dieci volte tanto. Come gli Usa si comportano numerosi altri Paesi, che hanno varato i cosiddetti programmi di “cittadinanza per investimento”, che a volte neppure prescrivono che il richiedente visiti mai la sua nuova Patria. Simili iniziative rivelano la totale arbitrarietà odierna del concetto di appartenenza a una nazione: “La storia della cittadinanza nel secolo XXI è l’ennesimo esempio della profonda diseguaglianza tra l’Occidente e il Sud del mondo tra i ricchi e i poveri”, spiega nel saggio Cittadinanza in vendita (La Nuova Frontiera) la giornalista Atossa Araxia Abrahamian. “Non tutti i passaporti sono uguali, non tutte le nazionalità parimente desiderabili. E gli stessi Paesi che respingono la povera gente arrivata via mare stendono tappeti rossi per i ricchi investitori che possono pagarsi i documenti”. Consapevole di questo commercio delle nazionalità, nel 2022, all’inizio della guerra in Ucraina, la Commissione europea ha invitato i governi dell’Ue a smettere di concedere la cittadinanza agli investitori, temendo che queste autorizzazioni possano rappresentare un rischio per la sicurezza europea. Gradualmente Irlanda, Regno Unito, Bulgaria e Portogallo hanno sospeso o annullato le concessioni ai ricchi stranieri (in Italia si può ottenere un visto, ma non un passaporto tricolore, per un soggiorno di due anni in cambio di un investimento di 500 000 € o 250 000 € per una start-up: la cittadinanza, invece, si può richiedere non prima di dieci anni). I magnati, tuttavia, non faticano certamente a trovare “casa”, ammesso che ne vogliano veramente una, in qualche Paese in cui non sono nati per mettersi al sicuro dall’instabilità politica, dalle azioni legali o dalle tasse di successione dei loro luoghi di origine. A Malta l’investimento minimo per un passaporto parte da 690 000 € e offre la cittadinanza in 12-36 mesi. Per quasi 150 000 $, invece, si diventa cittadini delle isole di St. Lucia, Antigua, di Grenada o della federazione di St. Kitts e Nevis, nelle piccole Antille, dove il business dei passaporti è pari a più del 40% del Pil. A Vanuatu, arcipelago dell’Oceania, si diventa cittadini in un mese, grazie a un investimento di 130 000 $, con il plus, fino a poco tempo fa, di un accesso diretto all’area Schengen. Un’altra opzione è offerta dalla Repubblica Dominicana, dove si diventa cittadini con circa 150 000 €, sfruttando la poca burocrazia e, non di rado, ancor meno controlli. Con qualche controindicazione. Una recente inchiesta dell’organizzazione Organized Crime and Corruption Reporting Project ha provato come lo stato caraibico abbia accolto tra i nuovi cittadini un ex capo dello spionaggio afghano, un milionario turco condannato per frode e un ex colonnello libico che ha prestato servizio sotto Muʿammar Gheddafi. Un gran numero di oligarchi russi, d’altronde, ha ottenuto la cittadinanza cipriota, dato che l’isola, come ha scritto Bloomberg Businessweek – dopo la crisi finanziaria del 2013 –, non potendo più riciclare capitali russi, ha deciso di riciclare direttamente i russi. La condizione è che “investano due milioni di euro in proprietà locali o 2,5 mln in titoli di Stato o in obbligazioni aziendali”. L’innovazione ha fruttato investimenti per quattro miliardi di euro, ma il programma ha chiuso nel 2020 dopo un’inchiesta giornalistica di Al Jazeera riguardante il riciclaggio di denaro. Tuttavia, secondo Kristin Surak, sociologa politica della London School of Economics e autrice del recente The Golden Passport: Global Mobility for Millionaires attualmente una dozzina di Paesi ancora prevede queste agevolazioni. Come la Turchia “che per 250 000 $ sta ancora naturalizzando i russi”. La mente dietro questi schemi di patriottismo selettivo è storicamente l’avvocato svizzero Christian Kälin, titolare di Henley & Partners, una delle principali società di citizenship planning, che ogni anno stila la lista dei documenti che aprono più porte. Quest’anno al vertice siede Singapore (con il suo passaporto si può infatti entrare in 194 nazioni senza bisogno di avere un visto), seguito da Giappone e Ue. Nel 2006 Kälin ha promosso il programma di Citizenship by Investments di St. Kitts & Nevis (che non prevede neanche una visita al Paese), inerte dal 1984, per poi promuovere presso facoltosi clienti le possibilità offerte da Malta, resa finalmente in grado “di assicurarsi investimenti e di arricchire la propria cittadinanza di persone con dimostrate capacità imprenditoriali e network di valore”. A prescindere dalle argomentazioni di Kälin, la possibilità offerta dal nuovo business rispecchia un mutamento culturale significativo e non del tutto pacifico: il passaggio, cioè, da un concetto di nazionalità legato al territorio, il cosiddetto ius soli, o alla discendenza, il cosiddetto ius sanguinis, a uno derivante dagli “investimenti”, ossia dal denaro, che secondo Kälin sarebbe addirittura più equo di quello attuale, perché basato su precisi requisiti, anziché casuale. Quanto al legame affettivo con la madrepatria, “se l’intero presupposto della cittadinanza era stato edificato attorno alla Nazione e se la stessa è messa sotto discussione dalla tecnologia globalizzante e dal mercato, è logico pensare che anche il sentimento di lealtà nazionale sia chiamato in causa”, argomenta Abrahamian. In effetti, è indubbio che gli happy few abbiano sempre costituito una comunità a parte e che abbiano più cose in comune con altri fortunati che con i compatrioti. I clienti della Henley, dunque, non stanno ignorando l’attaccamento al luogo di origine, ma prendendo atto della realtà. Per questo, già nel 2001, il politologo Samuel Huntington asseriva che “le élites stanno elaborando una propria identità mondiale, mentre l’opinione pubblica è sempre più scettica nei confronti della globalizzazione e diventa sempre più patriottica”. Le conseguenze di questo divario identitario, però, sono temibili per gli stessi Stati che si avvantaggiano della vendita dei passaporti. Infatti, spiega Ayleter Shachar, del Robert Schuman Centre for Advanced Studies, “la cittadinanza, come la conosciamo almeno a partire da Aristotele, comprende relazioni politiche: in quanto tale, si prevede che rifletta e generi una nozione di partecipazione, co-direzione e solidarietà tra coloro che sono inclusi nel corpo politico”. Se invece è il mercato – e non lo Stato – a governare l’acquisizione dell’appartenenza politica, ne risulta erosa l’idea che i concittadini siano soggetti che coltivano relazioni a lungo termine basate su fiducia, assunzione condivisa del rischio e sacrificio collettivo in caso di bisogno. Il commercio dei passaporti, d’altronde, va in una direzione verso la quale il capitalismo s’indirizza da secoli. Già nel 1776, anno di pubblicazione de La ricchezza delle nazioni, Bibbia del liberisti in economia, Adam Smith spiegava: “Il proprietario terriero è necessariamente cittadino del Paese in cui si trova la sua proprietà, mentre il proprietario di azioni è un vero cittadino del mondo”. 

 

Illustrazione: Giovanni Gastaldi

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