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Preistoria infinita, quanto è attuale il trapassato remoto

A fine ottobre, Netflix ha finalmente reso disponibile – dopo due anni di lavorazione – Life on Our Planet (da cui è stato tratto il libro omonimo, La vita sul nostro pianeta, pubblicato in Italia da Nord-Sud editore). Si tratta di una serie in otto puntate prodotta da Steven Spielberg e narrata – nella versione originale – da Morgan Freeman, in cui, solo nella prima puntata, una coppia di Smilodon abbatte un Titanis, una mamma Maiasaura esplora i terreni in cui nidificare e un tirannosauro e la sua prole tentano di cacciare un triceratopo (“’A Jurassic park, scansate”, direbbe qualcuno). Life on Our Planet è forse il documentario naturalistico più ambizioso mai realizzato, poiché copre un arco temporale pari a quattro miliardi di anni e comprende il racconto di 65 creature estinte. Da un lato, gli incredibili filmati di animali viventi che rivelano allo spettatore, attraverso tratti tuttora persistenti, il modo in cui il passato è ancora vivo nel presente; dall’altro, le creature perdute nel tempo (realizzate utilizzando la computer-generated imagery (Cgi), la computer grafica in tre dimensioni impiegata per la resa degli effetti speciali digitali) ci vengono restituite con tale vividezza che non sono mai sembrate più reali… Ed è un privilegio poterle (ri)vedere in azione, perché – come ci spiega la voce di Freeman all’inizio del documentario – il 99 % di tutte le specie mai vissute è scomparso, e la storia della vita sulla Terra è più che altro una storia di estinzioni di massa (almeno cinque nel corso dei millenni) e del ritorno discontinuo di una frazione delle forme di vita precedenti dopo ciascuna di esse. Come ha ricordato di recente il sofisticato settimanale New Yorker, immaginare come potesse apparire una bestia preistorica partendo da indizi fossili non è una pratica nuova. Anzi: alcuni studiosi ipotizzano perfino che l’idea del Ciclope con un unico occhio, descritto nell’Odissea, sia stato ispirato ai tempi degli antichi greci dal ritrovamento del cranio di un Deinotherium, una creatura con una proboscide simile a quella di un elefante, che era collegata a un’apertura nella parte anteriore della calotta cranica dello stesso animale. Congetturare su un bestione primordiale, però, è possibile soltanto quando esistono resti fossilizzati che fungono da indizi per i paleontologi, ovvero gli investigatori dei cold case più duraturi di sempre, dato che sono alle prese con misteriose sparizioni che datano almeno dal periodo cretaceo (65 milioni di anni fa).

particolare della locandina del documentario big john

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fasi della ricostruzione di big john

se gli scienziati fanno ipotesi scavando sul campo e lavorando in laboratorio, per la maggior parte di noi, invece, l’immaginario sulle creature preistoriche si basa unicamente sui documentari e sugli esemplari nei musei. Il primo scheletro di Tyrannosaurus rex fu esposto nel 1915 al Museo americano di storia naturale di New York, cementando irrevocabilmente, nella psiche popolare, l’immagine dell’imponente rettile carnivoro. La verità, però, è che l’esemplare Amnh 5027 – come era chiamato – fu composto con due scheletri diversi: l’olotipo (cioè il prototipo) del Tyrannosaurus rex (scoperto da Barnum Brown e Richard Lull durante una spedizione organizzata dal museo newyorkse nel Montana nel 1902) più un secondo esemplare scoperto nel 1908. Da allora, sono assai cresciute le conoscenze scientifiche sui dinosauri. Per esempio, il periodo ipotizzato per lo sviluppo completo di un esemplare adulto fa propendere per l’idea che essi fossero animali a sangue caldo, anziché antenati dei rettili, cioè animali a sangue freddo, perché questi crescono più lentamente. Anche il ritrovamento di centinaia di scheletri morti negli stessi momenti fa pensare ad animali più simili agli uccelli che alle lucertole, in quanto i volatili sono “gregari” e si muovono in gruppo. I misteri, però, sono ancora tantissimi, accrescendo il fascino di queste creature primordiali, e quindi il loro valore sul mercato. In questo settore di nicchia – ma facoltoso – uno dei “colpi” più significativi degli ultimi decenni è stato realizzato da un italiano: Flavio Bacchia, il fondatore della Zoic di Trieste. La Zoic ha rimesso insieme e poi venduto all’asta Big John, il più grande scheletro mai documentato di triceratopo: quasi otto metri di lunghezza per tre di altezza. Azzardando un esborso da 150 000 € per comprare da un ricercatore del Wyoming le ossa di Big John senza averle mai viste, Bacchia ha ricevuto il materiale in camicie di gesso all’interno di numerose casse e, in base ai primi rilievi, ne ha concluso che «l’animale pesasse tra le sette e le otto tonnellate. Quanto all’età, per valutarla è stata fatta la sezione di una costola, come si fa con i tronchi degli alberi, quando si vogliono ricavare le fasce di accrescimento; l’ordine di grandezza oscilla fra i 30 e i 40 anni», spiega Bacchia. Per ricostruire Big John sono stati necessari mesi di lavoro e alcune integrazioni: «Non avendo i piedi, abbiamo ovviato con repliche realizzate sulla base di quelli di un esemplare più piccolo», chiarisce Bacchia. Tuttavia, lo scheletro di Big John – protagonista dell’omonimo documentario di Davide Ludovisi e Dorino Minigutti presentato al pubblico pochi mesi fa – alla fine dei lavori è risultato completo al 60%; il cranio, al 75%. Questo spiega il prezzo record con cui è stato aggiudicato a un’asta all’Hȏtel Drouot di Parigi nel 2021: 6,65 mln di €. Il costo astronomico raggiunto da Big John, comunque, non è un’eccezione; al contrario, segnala un recente boom del settore, che «supera le previsioni più rosee con un aumento verticale dei prezzi», afferma Iacopo Briano, tra i massimi esperti di paleontologia e storia naturale, che dal 2017 cura le vendite di naturalia presso la casa d’aste francese Giquello e che, nel 2019, è stato l’ideatore del dipartimento di Mirabilia dell’italiana Cambi.

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fasi della ricostruzione di big john (il più grande scheletro mai documentato di triceratopo) alla zoic di trieste.

La preistoria non è mai stata così attuale, verrebbe da dire. Solo nel primo semestre del 2023 sono stati aggiudicati a ignoti compratori Trinity, un esemplare di T-rex lungo 11,6 metri, venduto il 18 aprile a Zurigo dalla maison svizzera Koller per 6 mln di $. In giugno, sono stati venduti a Parigi un teropode carnivoro per 467 300 € e un cranio di mammut per 156 000 €. Un mese dopo, il 26 luglio, questa volta a New York, Sotheby’s ha messo all’incanto il plesiosauro Nessie e lo pteranodonte Horus, venduto per 3,9 mln di $. E a fine ottobre 2023, un fossile di Camptosaurus, chiamato Barry e restaurato ancora da Zoic, è stato aggiudicato da Briano per 932 000 €. «Di solito, il compratore è una persona che ha fatto fortuna nelle nuove tecnologie, ha un background scientifico, e se da bambino sognava i dinosauri ora se li compra», dichiara l’esperto. Più che a uno sfizio legato all’infanzia, Briano assimila però il costoso cimelio a un memento mori: «Questi animali, evolutissimi sotto più aspetti, hanno abitato e dominato il nostro mondo per 165 milioni di anni e poi sono stati spazzati via da un asteroide». Insomma, come una vanitas, una di quelle seicentesche nature morte con teschio, che alludono alla fugacità della vita terrena, questi scheletri primordiali piacciono perché, simboleggiano la caducità di ogni potere e l’ineluttabile destino di tutte le creature terrestri, inclusi i multimilionari digitali. Per riprendere un detto latino, (Pre)historia magistra vitae.

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