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La sfida con le fonti di energia rinnovabili

Pensavamo di averlo salutato con il doppio referendum che l’ha messo fuori gioco, il primo nel 1987 dopo Chernobyl, il secondo nel 2011 dopo Fukushima. Invece il nucleare da fissione, quello “pulito” da fusione, non è ancora dietro l’angolo, si è ripresentato alla finestra, accompagnato da chi vede nell’atomo la possibilità di toglierci dalla gogna del gas, questione drammaticamente esplosa anche durante il conflitto ucraino, e di risolvere il problema del climate change. Di suo ha il pregio, come le fonti rinnovabili, di produrre elettricità senza generare emissioni, e secondo l’International Energy Agency (Iea) dovrebbe addirittura raddoppiare, se vogliamo centrare l’obiettivo delle “carbon neutral” entro il 2050. L’atomo, tuttavia, è talmente ostico che risulta difficile persino classificarlo. Sostenibile o non sostenibile? Stilando la tassonomia verde delle fonti energetiche (che dovrebbe favorire l’afflusso di capitali verso tecnologie pulite), la Commissione Europea ha fatto una scelta di compromesso: il nucleare è rimasto nella “lista buona” insieme al gas, in quanto fonti stabili indispensabili per accompagnare le intermittenti rinnovabili nel percorso di decarbonizzazione. Una scelta pragmatica, per alcuni; sbagliata, per altri, perché accredita come sostenibili fonti d’energia che non lo sono. Nel frattempo, però, chiediamoci: ha senso, oggi, investire in nuove centrali? O è meglio spingere l’acceleratore soltanto sulle energie rinnovabili? Mettiamo sul piatto della bilancia i pro e i contro dell’energia atomica per vedere quali pesano di più.

Le rinnovabili in pole position

Con 412 centrali attive sparse in una trentina di Paesi (i dati, di gennaio 2022, sono del World Nuclear Industry Status Report), il nucleare vale circa il 10% dell’elettricità mondiale, una quota stabile ormai da qualche anno. In Europa arriva a coprire il 25% del fabbisogno elettrico grazie ai 148 impianti esistenti, 58 solo in Francia. Oggi quasi tutte le centrali in funzione, appartenenti alla seconda generazione, nata alla fine degli Anni 60, sono datate; i nuovi progetti di terza generazione sono 54, otto dei quali in Europa, e andranno prevalentemente a sostituire gli impianti vecchi senza creare capacità aggiuntiva. Il risultato è che il nucleare si è da tempo fermato. «Era partito fortissimo negli Anni 60, dopodiché ha rallentato e da una trentina d’anni non cresce più», osserva Vincenzo Balzani, chimico, professore emerito presso l’Università di Bologna. Così, le fonti rinnovabili, quasi assenti nel 2010 a eccezione dell’idroelettrico, oggi hanno superato il nucleare: «Nel frattempo il costo dell’elettricità prodotta da eolico e fotovoltaico è precipitato e oggi è inferiore a quello dei reattori». In effetti, guardando ai numeri, ci sarebbe poco da discutere: nel 2020 produrre 1 kWh di elettricità con il fotovoltaico è costato in media 3,7 centesimi di dollaro, 4 con l’eolico, 16,3 con i nuovi impianti nucleari. Va precisato, a onor del vero, che i costi di generazione delle rinnovabili variano anche molto a seconda del luogo.

Fonte: Eurostat

Sostenibile, anzi no

Il nucleare mette a disposizione una grande quantità di energia pulita con una sola centrale: la taglia tipica è di 1GW di potenza. Ma qual è la sostenibilità da altri punti di vista? L’uranio, tanto per cominciare, non è una fonte rinnovabile e arriva da pochi Paesi: Kazakistan, Canada e Australia, seguiti da Namibia, Russia, Niger. Non ci libera quindi dal problema della dipendenza dall’estero per il reperimento della materia prima. Anche le rinnovabili, d’altronde, hanno bisogno di litio e terre rare che provengono quasi esclusivamente dalla Cina e che comportano, tra l’altro, un processo di estrazione ad alto impatto ambientale. È anche vero, però, che sole e vento saranno disponibili virtualmente sempre, per tutti e gratis. C’è poi la questione scottante della sostenibilità sociale, che riguarda da un lato la sicurezza degli impianti e dall’altro lo stoccaggio delle scorie radioattive, ingombranti “effetti collaterali” pericolosissimi per migliaia di anni. Il problema a oggi non appare risolto. Il solo deposito profondo esistente, in una zona desertica del New Mexico, ha richiesto 25 anni di preparativi. Francia e Finlandia stanno mettendo mano solo ora ai primi progetti di depositi geologici, mentre tutti gli attuali siti di stoccaggio europei sono temporanei. Anche i nuovi impianti nucleari di terza generazione, pur essendo sicuri e capaci di sfruttare meglio il combustibile, non ci liberano dalle scorie. Il problema più grande della terza generazione, però, è forse un altro e riguarda la sostenibilità economica: questi reattori, infatti, stanno evidenziando forti criticità nell’approdare all’operatività. Lo dimostrano gli impianti Epr (il reattore europeo ad acqua pressurizzata) di Flamanville in Francia e di Olkiluoto in Finlandia, che hanno vissuto ritardi pesantissimi con costi lievitati senza controllo. Per Olkiluoto, il più grande reattore nucleare d’Europa, erano previsti inizialmente 3,2 mld di € che sono diventati 11, mentre i tempi si sono dilatati di 12 anni. Secondo Marco Ricotti, professore ordinario di Impianti nucleari al Politecnico Milano, si tratta di mancanza di capacità industriale: «Se nucleare significa aumento dei costi del 300% e dei tempi del 200%, ciò che è successo in Finlandia e in Francia con i reattori di terza generazione, evidentemente non è percorribile. Per rendere il nucleare competitivo si devono mantenere i tempi e i costi previsti. Che questo non sia utopico lo dimostrano i cinesi, i russi, i coreani, che stanno realizzando gli stessi reattori ma rispettando, in linea di massima, tempi e budget. Perché in Occidente non riusciamo a costruirli? Un’industria così complicata non si può fermare 30 anni per poi scongelarla e pensare che abbia le stesse capacità». C’è una questione fondamentale di opportunità che però vale la pena considerare: «Oltre ad avere costi elevatissimi e problemi di gestione e sicurezza mai risolti, come quello delle scorie, il nucleare porta inevitabilmente a vincolarsi per secoli e questo oggi non ha senso, perché stiamo viaggiando verso un sistema elettrico completamente diverso, flessibile e decentralizzato», osserva Nicola Armaroli, Research Director del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). E aggiunge: «Sappiamo che per le rinnovabili serve lo stoccaggio e un bilanciamento ottimale di domanda e offerta di energia, ma abbiamo, e avremo sempre più, quello che ci serve: accumulatori, reti intelligenti digitalizzate, stoccaggio idroelettrico e, fra 10 anni, cominceremo a stoccare eccessi stagionali di rinnovabili con l’idrogeno. Mettendo insieme milioni di utenti-produttori rinnovabili (abitazioni, imprese) che comunicano fra loro, anche il problema della fluttuazione delle rinnovabili sarà superato. In un sistema di questo tipo il nucleare è come un elefante in una cristalleria. Un reattore nucleare non è altro che un gigantesco, complicatissimo, e costosissimo bollitore d’acqua. Ma davvero pensiamo possa essere questo il modo più razionale e pratico per produrre elettricità nel XXI secolo?».

A capo delle relazioni istituzionali di EUROfusion, il consorzio che per la Commissione Europea indirizzerà 547 milioni di euro verso lo sviluppo del nucleare da fusione e non più da fissione. Non più reattori bensì tokamak, dove pochi grammi d’isotopi di idrogeno generano un plasma di ioni ed elettroni, per sprigionare la medesima potenza delle reazioni termonucleari del sole. Una tecnologia che se applicata su larga scala promette elettricità illimitata, sicura, e a basso consumo di materie prime. Il più grande impianto al mondo, chiamato Iter (in latino, “la via”), è in costruzione in Francia.
TGL: A che punto è la ricerca?
K.T.: Il più grande tokamak ora esistente, il JET, lo scorso febbraio, a Oxford, ha prodotto 56 megajoule di potenza utilizzando solo 170 microgrammi di materia prima: un nulla. Per ottenere lo stesso risultato, con gas o carbone, per intenderci, la materia utilizzata sarebbe stata dieci milioni di volte superiore.
TGL: Quali materie prime sono necessarie?
K.T.: Deuterio e tritio. Il primo si estrae facilmente dall’acqua. Il secondo è generato dal litio, materiale né raro né costoso.
TGL: Nella reazione viene prodotta CO2?
K.T.: No. L’unico scarto è l’elio, che idealmente può essere riutilizzato in ottica circolare, così come tutte le componenti del tokamak: la radioattività da fusione dura cento anni, massimo trecento per alcune componenti affette da polvere di tungsteno, tritio o berillio. In ogni caso, non migliaia di anni come accade per i rifiuti da fissione, e nessuna reazione incontrollata è possibile.
TGL: Quando sarà pronto Iter?
K.T.: L’esperienza con Jet ha confermato le nostre previsioni: dovremmo essere in grado di ottenere il primo plasma nel dicembre 2025, per arrivare a pieno regime nel 2035. Il mondo, finalmente, avrà la sua buona stella. (di Raffaele Panizza)

Quarta generazione: verità e metodo

Mentre la terza generazione sta faticosamente guadagnando il campo già si pensa alla quarta, che dovrebbe risolvere il problema dei rifiuti radioattivi. L’orizzonte temporale, però, è di una ventina d’anni, anche se i nuovi reattori potrebbero arrivare prima. È quel che pensa Ricotti: «Dal 2035 in poi dovrebbero partire i reattori di quarta generazione e i primi, in Russia, li avremo forse già nel 2030. Oltre ad aumentare la sicurezza, questa tecnologia permetterà di riutilizzare i rifiuti radioattivi nel cosiddetto ciclo chiuso del combustibile, che ridurrà la radio-tossicità da 100 000 a 300 anni evitando di dover ricorrere a depositi geologici profondi. Ma bisogna fare in modo, anche in questo caso, che l’industria abbia la possibilità di lavorare con continuità».

Consumare meno, consumare tutti

Premesso che per approdare all’energia pulita bisognerà probabilmente percorrere diverse strade, è chiaro da quanto è emerso finora che i due principali contendenti sono le fonti rinnovabili e il nucleare. Se può apparire stupido rinunciare a una delle due sole armi che abbiamo a disposizione, come sostiene Ricotti, è anche vero che puntare su una tecnologia che non riesce a non destare legittimi timori e che non è più adeguata al nuovo paradigma dell’energia distribuita potrebbe non avere senso. Senza dimenticarsi di una terza arma che abbiamo a disposizione, come ci suggerisce Balzani: «Le risorse naturali necessarie sono comunque limitate e concentrate solo in alcune aree, nessuno ha tutto quello che serve. Anche le rinnovabili hanno davanti una strada stretta che costringe ad andare d’accordo e, soprattutto, a consumare meno». Perché alla fine l’energia più pulita è quella non consumata.

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