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Videowars, è iniziata l’era post-Netflix

«Vincere un Golden Globe ci aiuta a vendere più scarpe», disse Jeff Bezos nel 2016, forse ancora ignorando il flusso reciproco: vendere scarpe l’avrebbe aiutato a rendere visibile un servizio, Amazon Prime, capace di passare dai 100 mln di abbonati dell’aprile 2018 ai 150 di inizio 2020. Che cosa sia successo da allora rimane top secret, come spesso accade alle vicende delle Ott: le Over the Top, le imprese che offrono servizi video via Internet non monitorati dai consueti enti di rilevamento televisivo. Tuttavia, ad aprile 2021, lo stesso Jeff Bezos sottolineò come nel 2020 oltre 175 mln di iscritti Prime abbiano guardato contenuti su Prime Video, per una crescita annua del 70% delle ore totali. Una dichiarazione che non si può pesare ufficialmente, ma è certo che la pandemia è stato un booster non solo per il vaccino, ma anche per il business delle piattaforme streaming. Nessuna condizione, per quanto cinica, è migliore che ritrovarsi tutto il mondo chiuso in casa. Eppure, quando la marea si alza troppo, il rischio è lo tsunami. Ed è quello che gli esperti non nascondono che si possa abbattere su Netflix e le sue sorelle.

Gli uffici di netflix a Los Angeles e Amsterdam (destra).

Perché Netflix sta perdendo gli abbonati

La società guidata da Reed Hastings è il benchmark per tutte le piattaforme Svod (Subscription video on demand) e anche nell’anno del lockdown ha dimostrato di essere un punto di riferimento, tagliando il traguardo dei 200 mln di abbonati. Eppure, già nell’ultimo trimestre 2020 si è cominciato ad avvertire qualche scricchiolio: a fronte di un fatturato in rialzo del 21%, e soprattutto con 8,5 mln abbonati in più (contro i 6,4 mln previsti), gli utili si erano rivelati inferiori alle attese, in calo del 7,6%. Che cosa stava succedendo? Gli investitori ci hanno messo un anno per rispondere e a inizio 2022 il titolo di Netflix è franato del 20%, perdendo 45 mln di dollari di capitalizzazione. I dati ufficiali del primo trimestre del 2022 hanno poi confermato i timori: Netflix ha detto addio a 200 000 abbonati. Per la prima volta in dieci anni, il colosso dello streaming ha fatto registrare una perdita di abbonamenti.

La causa della perdita degli utili? Le deludenti previsioni di crescita degli abbonati Usa: “solamente” 2,5 milioni, un terzo della stima di Wall Street. Secondo gli analisti, il colosso televisivo ha cominciato a sentire il peso della concorrenza, tanto che – per tranquillizzare gli animi – è sceso in campo direttamente il Ceo, Reed Hastings: «Hulu e Amazon esistono da 14 anni, ma non c’è stato alcun cambiamento qualitativo che possa spiegare uno spostamento degli assetti», ha dichiarato alla Cnbc. Tuttavia, per Francesca Gregory, associate analyst di GlobalData: «le deludenti statistiche sugli abbonati di Netflix provano che il suo vantaggio di prima mossa sta mostrando la corda, come succede quando i mercati raggiungono il punto di saturazione». Insomma, il mercato televisivo ha avvertito la scossa tellurica e s’interroga su quale possa essere l’epicentro. Già nel 2019 Aswath Damodaran, professore di finanza alla Stern School of Business della New York University, sosteneva sul Financial Times che Netflix «per un decennio ha investito sempre più soldi in nuove produzioni, per attirare utenti e aumentare la sua capitalizzazione sul mercato. Per ora ha funzionato. La domanda è: come è possibile scendere da questo tapis roulant?». Che il nastro stia iniziando a rallentare la sua corsa? Forse sì, e non solo per Netflix.

fonti: Osservatorio Digital Content – global data – Rai - Radiotelevisione Italiana Spa

La legge è: “The content is the king”

Da una parte è vero che mai come oggi per le tv in abbonamento “content is the king” come dimostra Wonder Woman 1984, che nel dicembre 2020 trainò il raddoppio netto di abbonati di HBO Max, il servizio on demand dell’emittente via cavo e satellitare. E lo ribadisce Hub Research, che valuta nella misura di un terzo i nuovi clienti che si abbonano per vedere un solo show, di cui poi ben il 74% decide di restare. Dall’altra parte, però, per allargare continuamente la proposta di contenuti si rischia un gigantismo alla lunga insostenibile in termini di costi: «Disney+ quest’anno spenderà 33 mld di $ in contenuti e Netflix 18. Amazon Prime Video ne ha investiti un miliardo per la serie de Il Signore degli Anelli, ancora prima che un solo episodio sia stato trasmesso. Producendo spettacoli che si confida possano essere giudicati dal pubblico “imperdibili”, le piattaforme sperano di mettersi al riparo dalla fuga di abbonati, inevitabile quando il lockdown non sarà più la norma», sostiene Gregory, toccando uno dei nervi più scoperti del settore.

Le piattaforme Ott, infatti, devono fare i conti con un altro insidioso baco nel sistema: il loro successo dipende anche dalla facilità con cui ci si abbona e, soprattutto, con cui eventualmente si disdice. Il pubblico (sempre più giovane) premia le piattaforme che permettono di annullare un abbonamento senza pagare penali. Il tasso di cancellazione (churn rate) rischia perciò di mangiare dall’interno l’intero modello di business delle Ott. Una ricerca di Deloitte Global prevede che nel 2022 almeno 150 mln di abbonamenti saranno disdetti, con tassi di abbandono fino al 30%. Cifre da brividi, anche se la società di ricerca offre un salvagente: molti di coloro che annulleranno, infatti, potrebbero abbonarsi nuovamente a un servizio lasciato in precedenza. È un serpente, però, che comincia a mordersi la coda, segnale che il mercato è maturo e si entra in un nuovo territorio: la guerra di concorrenza. È cominciata la fase, insomma, in cui i clienti bisogna sottrarli agli altri. Nel contempo, però, se i fornitori di servizi video sanno che devono tenere sotto controllo il tasso di abbandono, la pressione per acquisire e mantenere gli abbonati sta lievitando a livelli insostenibili: negli Usa oggi è già oltre i 200 $ per abbonamento. Le vie di fuga perciò cominciano a diversificarsi. La più banale è aumentare il costo dell’abbonamento, che però è anche tra le prime cause di disdetta. Più raffinata è la strategia di utilizzare quella miniera d’oro che sono i dati dei profilatissimi clienti: comprendere i loro gusti equivale a renderli fedeli, ma anche a non dissipare investimenti in prodotti che non saranno apprezzati.

«Le Tv on demand, se vogliono mantenere i loro profitti, dovranno cominciare a diventare sempre meno supermercati e sempre più editori, che raccontino e promuovano contenuti oltre a distribuirli», conferma Riccardo Pasini, produttore televisivo e autore di La nuova era della videoevoluzione. Coerentemente, Scott Stuber, il responsabile globale dei film Netflix, ha dichiarato al New York Times: «Una giusta critica che ci viene fatta è che realizziamo troppi prodotti e pochi di alto livello. Quello che vogliamo fare è realizzarne un po’ meno, ma più di qualità».

Le sfere e i grattacieli di amazon, a Seattle.

La sede di londra di Dazn. Che si è aggiudicata i diritti di trasmissione dei campionati di serie a 2021-2024.

la sede di Londra di Sky

Dal telecomando al joystick

C’è forse una via di mezzo, almeno finché il mercato globale offre sacche di potenziali nuovi clienti: «L’India rappresenta uno dei mercati con le maggiori opportunità di crescita. GlobalData prevede che la penetrazione di Svod aumenterà dal 24% nel 2021 al 42% nel 2026. Mentre Disney+ lì è in pole position», dice Gregory. Se i contenuti sono importanti, la tecnologia resta fondamentale: «La tv come la conosciamo sta morendo», spiega Pasini. E aggiunge: «Gli editori classici si sono creati i loro canali on demand, come RaiPlay o Mediaset Infinity. Quando la riorganizzazione delle frequenze tv sul digitale porterà le smart tv in tutte le case, tutti i canali convergeranno verso il mondo delle app e il telecomando diventerà un joystick». Oggi il più evoluto è quello di Sky Q, con i comandi vocali. Sky è già un ibrido: dal satellite ha prima presidiato Internet con Sky Go, poi si è diversificata nel digitale e ora si propone sempre di più come aggregatore di app: Netflix, Disney+, Apple TV+, Prime Video e Peacock, il canale on demand della Nbc. Rimane fuori giusto Dazn, per la galattica guerra sui diritti calcistici. Al riguardo, si registrano rumors di una fusione con Prime Video. L’avvicinamento c’è stato con i problemi di buffering d’inizio campionato e il salvagente tecnologico lanciato da Amazon. Le strutture occupano gli stessi edifici di Cologno Monzese e gli spifferi di collaborazione potrebbero portare a un rimescolamento di carte. D’altra parte, se c’è qualcuno che può esplorare nuovi territori è Prime Video, che essendo una costola di Amazon Prime può sfruttare uno zoccolo duro indipendente dalla tv. Ma non è certo la piattaforma video a far svoltare i bilanci del colosso di Seattle e in molti s’interrogano: chi glielo ha fatto fare? «La strategia potrebbe non essere squisitamente editoriale», azzarda Pasini.

«Il vantaggio competitivo sta proprio nel marketplace. Non escludo che, quando la tecnologia dei video interattivi lo consentirà, capiremo che è una mossa per attirare pubblico e vendergli qualcosa. In fondo, è sempre stato il sogno di Internet: guardi, clicchi, ti piace e compri. Subito. Amazon è l’unica tv che potrebbe farlo, con la logistica già pronta». In fondo, non è una strada nuova: dalle televendite al branded content, le tv generaliste, seppur artigianalmente, l’hanno sempre praticata. Fare programmi costa e i canali sono sempre meno propensi a investire: la soluzione è far pagare gli sponsor. Sul come farlo senza tradire lo spettatore, lo spiega Marco Falorni, amministratore unico di Libero Produzioni Televisive, che ha trovato una strada ibrida: «Dietro a ogni brand ci sono uomini e prodotti con storie avvincenti. Non c’interessano sponsor puramente finanziari. Per esempio, nel nostro recente Space Walk su Rai 4, abbiamo coinvolto brand che potessero raccontare da protagonisti la corsa allo spazio». Il branded content come garanzia di indipendenza autoriale: «In un contesto globale, dove s’acquistano format e l’unico sforzo è adattarli ai singoli Paesi, è il nostro modo per restare autori. E le reti sono contente perché hanno un contenuto di qualità senza costi».

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