The Good Life Italia

fashion factory

Le fashion factory guidano il futuro post-industriale

La moda specchio della società. Un’ovvietà, certo, in cui però risiede uno spunto di riflessione meno banale: quanti di noi si rendono davvero conto della capacità di questo settore di rappresentare il proprio tempo? Andrea Batilla – esperto e critico della moda su Instagram, ma anche scrittore dalla penna agile e acuto osservatore del costume – nel libro Come ti vesti. Cosa si nasconde dietro gli abiti che indossi (Mondadori, 2022) sottolinea come in ogni momento storico la moda funzioni al pari di una gigantesca cassa di risonanza e, proprio per questo, diventa la bussola ideale per capire cosa sta succedendo. The Good Life allarga il campo della sua osservazione e include nel sistema moda i luoghi dove la moda si fa, proprio nel senso che la si produce materialmente: le fashion factory. Qui, infatti, come naturale conseguenza di quel principio generale, ritroviamo la stessa vocazione dei loro prodotti: le aziende e gli headquarter raccontano le identità dei fashion brand, la loro abilità di anticipazione e rappresentazione anche attraverso il linguaggio architettonico degli edifici che li ospitano. «Oggi più che in passato c’è una grande attenzione nei confronti dell’architettura delle fabbriche o comunque dei luoghi della produzione», riflettono Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori di Labics, studio di architettura e urbanistica fondato a Roma nel 2002. E aggiungono: «Lo si può riscontrare sia nelle aziende legate al mondo della moda e del design, ma anche, per esempio, nel campo dell’automotive o quello della produzione del vino o altro ancora». Un’attenzione che, al di là delle inevitabili ricadute legate al marketing e all’identità del marchio, porta con sé una nuova considerazione nei confronti della popolazione che vive quotidianamente questi luoghi, nonché nei confronti dell’ambiente costruito in generale.

La fendi factory a bagno a Ripoli (FI). l’idea è stata quella di trasformare l’intero lotto in un giardino esteso

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La copertura verde, scavata da patii illumina gli spazi interni

Ritorno alla natura

L’istanza ambientale sta cambiando radicalmente l’architettura degli ultimi anni, anzi, è diventata una caratteristica imprescindibile che per coscienza etica, obbligo normativo o mera strategia per farsi “perdonare” consumo di suolo e automazione, è applicata a tutti gli edifici, fabbriche incluse. La Fashion Factory di Fendi a Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, per esempio, ha fatto del dialogo tra architettura e ambiente uno degli obiettivi principali del suo progetto, tant’è vero che è stato definito in fase preliminare dallo Studio Piuarch insieme al paesaggista Antonio Perazzi. Completato nel 2022, il complesso di circa 14 000 mq si presenta come un sistema integrato che ricostruisce la morfologia del terreno e restituisce forma originaria alla collina. «Le caratteristiche del luogo, segnato dalle logiche di sfruttamento dell’industria laterizia e della cava precedentemente attiva sul lotto, hanno richiesto un intervento di risanamento e suggerito l’opportunità di instaurare virtuose dinamiche di gestione del territorio», spiega Gino Garbellini, socio dello studio Piuarch. In copertura, il giardino pensile assume una funzione ambientale, che contrasta l’effetto isola di calore indotto dall’edificio, offrendo un luogo di socializzazione per le persone che ci lavorano. «Copertura verde, moduli fotovoltaici, recupero dell’acqua piovana per l’irrigazione sono i principali sistemi che determinano l’alta efficienza energetica della fabbrica», continua Gino. Il risultato? «È un edificio quasi mimetico, che non perturba, bensì amplifica l’armonia del territorio», conclude.

Similmente, lo Studio Grand Seiko Shizukuishi si trova immerso in una foresta della prefettura di Iwate, in Giappone. A firma di Kengo Kuma, conosciuto per il suo approccio attento alla valorizzazione dell’ambiente e della natura, l’edificio è stato inaugurato nel 2020. Premiato con diversi riconoscimenti per il suo approccio sostenibile a tutto tondo, si estende su una superficie di 2 244 mq che ospitano l’area produttiva, uno spazio espositivo, una sala seminari e, al secondo piano, una mostra permanente sul mondo Seiko. La tecnologia impiegata per l’illuminazione e la ventilazione a pavimento hanno permesso di creare un ambiente dal design puro, essenziale, sottolineato dall’abbinamento con un bianco etereo. «L’importanza che la natura riveste per Grand Seiko si riflette nel progetto di ogni dettaglio dello Studio e della sua realizzazione», racconta Kengo Kuma. Che aggiunge: «Mi sono molto divertito a trovare un equilibrio tra le caratteristiche naturali del legno e i requisiti tecnici da rispettare».  

Imponente l’intento di Bulgari che, a pochi anni dall’apertura della sua nuova manifattura di gioielli, a fine 2022, ne ha annunciato l’ampliamento con cifre faraoniche: una nuova superficie di quasi 17 500 mq, l’assunzione di circa 650 nuovi dipendenti entro il 2028, il raddoppio dell’attuale capacità produttiva del sito. Il completamento del progetto è previsto entro la fine del 2024. Il nuovo sarà realizzato secondo i principi di efficientamento energetico per ridurne l’impatto ambientale e preservare il territorio limitrofo con la sua biodiversità. L’area sarà di conseguenza edificata utilizzando tecnologie e materiali innovativi a basso impatto ambientale, con l’obiettivo di riconfermare la certificazione Leed (Leadership in Energy and Environmental Design) già conquistata nel 2017.

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Estetica pura e minimalista per lo studio grand Seiko Shizukuishi in Giappone.

Sostenibilità ad alti livelli per l’ampliamento della manifattura Bulgari a Valenza (AL).

Uomini e robot

La proporzione tra gli spazi occupati dai colletti bianchi e dagli operai all’interno delle fabbriche sta cambiando. Siamo ufficialmente nell’era dell’industria 4.0, che utilizza l’apprendimento automatico e l’integrazione digitale per migliorare l’efficienza e connettere divisioni della produzione che in precedenza rimanevano separate. In più, con la carenza di manodopera provocata dalla pandemia, questo processo di automazione ha subito un’accelerazione. In un simile contesto, il sapere artigianale è diventato più che prezioso: una risorsa che i fashion brand del lusso sanno di dover proteggere. Non a caso Chanel ha inaugurato nel gennaio 2022 la Galerie du 19M, un tempio dedicato ai mestieri artigianali della moda pensato per conservare e promuovere un know how specifico: 25 500 mq distribuiti su cinque piani, accolgono 11 maisons d’art e una scuola di ricamo, per un totale di più di 600 artigiani, impiegati e apprendisti. Rudy Ricciotti è l’architetto che si è occupato del progetto, caratterizzato da una copertura esterna sorprendente. Ispirata a una trama tessile verticale, è costituita da un esoscheletro di 231 moduli di filamenti Uhpc bianchi, alti fino a 24 m. Un omaggio a tutte le maestranze che contribuiscono all’identità di Chanel. E forse un’armatura a difesa dell’automazione che cannibalizza il lavoro.  Statement analogo per Bulgari. La Manifattura attuale è stata costruita dove una volta risiedeva la cosiddetta Cascina dell’Orefice di Francesco Caramora, il famoso orafo che nel 1817 aprì il suo laboratorio a Valenza. Con il nuovo ampliamento annunciato, l’apertura della scuola farà da collegamento, fisico e simbolico, tra i due edifici nuovi e l’esistente. 

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A Parigi, la fashion factory 19m è un tempio dei mestieri d’arte che collaborano con la maison Chanel.

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Gli artigiani di Chanel nella sede 19M

L’altra faccia del lavoro

«La contaminazione dello spazio produttivo è un fenomeno molto interessante che stiamo osservando negli ultimi anni e che può generare un arricchimento dell’ambiente interno. Crediamo che questo tipo di contaminazione contribuisca alla realizzazione di ambienti di lavoro più accoglienti e stimolanti, sia che si tratti di un ufficio, sia che si tratti di una fabbrica» osservano ancora Maria Claudia e Francesco. Alcuni esempi recenti, pensiamo a colossi come Microsoft, Google o Apple, hanno cercato di dimostrare come un ambiente di lavoro arricchito di spazi ibridi o informali (da bar e salottini ad aree relax o ludiche) possa stimolare la creatività e il confronto e lo scambio reciproco. In questo modo di progettare lo spazio del lavoro intravediamo i riflessi sia dell’eredità post-pandemia – per cui non si vuole più il sacrificio né la mortificazione dell’individuo per assicurare efficienza e produttività – sia dell’influenza del modello Teal, ossia l’organizzazione aziendale più vezzeggiata del momento, che persegue l’abbandono della gerarchia per abbracciare una struttura pari livello. L’appiattimento dell’organizzazione verticale – ancora appannaggio di poche realtà aziendali, un miraggio auspicato per molte – e il desiderio di un maggiore benessere sul lavoro porta a pensare a spazi porosi, liquidi, lontani dall’immaginario lavorativo consolidato. Un esempio? Le architette ucraine Veronika Arutunyan e Olga Malyshenko hanno trasformato a Kiev – a fine 2021, mesi prima dell’invasione russa del Paese – gli interni di un’ex fabbrica degli Anni 40 in ufficio e spazi produttivi per il marchio di abbigliamento Sleeper. Gli ambienti di lavoro, le aree relax, le sale riunioni, le divisioni produttive e lo studio fotografico interno sono arredati con rimandi all’home interior: mobili risalenti a design di epoche diverse, oggetti vintage e di modernariato sono disposti ovunque. Pavimenti in parquet e soffitti alti sono stati mantenuti originali, mentre i layout degli ambienti sono stati progettati flessibili, per accogliere il team e le sue eventuali espansioni. 

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lo stabilimento produttivo e gli uffici della fashion factory di Sleeper a Kiev contaminano gli spazi di lavoro con ambienti relax e arredi home interior

Fashion Factory 2.0

In passato, abbiamo visto poche fabbriche pensate per essere fruite diversamente dalle persone. Esempi illuminati come quelli di Olivetti o di Prada con Guido Canali sono diventati casi-scuola di ispirazione, ma nella quotidianità gli stabilimenti produttivi non erano, e molti non sono ancora, luoghi di cui essere fieri. Da qui la necessità di avere delle fashion factory che potesse assolvere anche alla funzione di rappresentanza. Ma qualcosa sta cambiando. Si annusa nell’aria la tendenza a interpretare i luoghi di produzione con un rinnovato valore simbolico, mediante i quali l’azienda comunica il proprio approccio positivo riguardo tecnologia, sostenibilità, etica. Gli stabilimenti che raccontiamo lo dimostrano, accomunati da un processo di estetizzazione evidente, quasi un requisito obbligatorio per i marchi di moda. «Per questo motivo negli ultimi tempi la distanza valoriale, ma anche fisica, tra fabbrica e headquarter si è assottigliata: questi ultimi possono convivere accanto al luogo di produzione, diventando parte integrante dello stesso complesso», commentano Maria Claudia e Francesco.

Villa Minelli, a Ponzano Veneto, è il quartier generale di Benetton di Afra e Tobia Scarpa

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Il Gucci Hub a Milano, firmato Piuarch, è incluso nello spazio dell’ex fabbrica caproni.

Visibile il restauro delle strutture metalliche, caratterizzate da geometrie articolate e profili minimi dell’ingegneria dell’epoca.

I luoghi del fare e quelli del pensare si avvicinano. Stando così le cose, il quartier generale rischia una crisi di identità? Secondo Hugo Haas, che ha progettato il nuovo headquarter del marchio di scarpe Veja a Parigi, no. Lo scopo principale è quello di essere funzionale: «uno spazio di lavoro è uno strumento, né uno show né un evento di un’ora o una bella immagine, tanto meno un manifesto. È un ufficio, pertanto deve essere essenziale e lasciare spazio alla creatività, alle attività e agli sviluppi futuri». Ferma restando la sua missione, dunque, cambia il modo in cui la porta a termine. Secondo Haas l’innovazione nella progettazione sta nel tradurre in architettura il diverso modo di relazionarsi che si sta diffondendo negli ambienti di lavoro: «gli spazi si arricchiscono di cabine telefoniche, sale per piccole riunioni, medie, grandi, agorà che ospitano elevati numeri di persone». Cui si aggiunge la necessità di realizzare sistemi aperti: facilmente modificabili, adattabili. «Le situazioni si evolvono, migliorano. Niente più progetti definitivi, bensì sistemi dinamici». Questa fluidità del quartier generale è lo step attuale di un’evoluzione che affonda le radici in un passato dove esempi riusciti come il Gucci Hub di Piuarch a Milano o, ancora prima, il lavoro di Afra e Tobia Scarpa con Benetton, hanno posto le basi, iniziando in tempi non sospetti a riflettere su multifunzionalità e coerenza strutturale. L’Hq esce dalla fortezza, quindi, e si apre al territorio e alle persone.

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