Tour letterario in Giappone
L’indirizzo esatto sarebbe 渋믄혐道楽裁17-5, tradotto per noi comuni mortali Sarugakuchō 17-5, Shibuya-ku, Tokyo. Qui, inglobata in un elegante guscio contemporaneo escogitato dallo studio giapponese Klein Dytham Architecture, ti accoglie Daikanyama Tsutaya Books. “In un mondo perfetto, ogni libreria sarebbe così”, azzarda la versione di Time Out dedicata alla capitale giapponese. Difficile dar loro torto. Una volta all’interno le ore passano tra una sala e l’altra senza che nemmeno te ne accorgi, sopraffatto da mirabolanti copertine perfette in ogni dettaglio. Vorresti comprare di tutto, non fosse altro che per il look, e fa niente se non si comprende il giapponese: libri, manga, magazine… che poi con lo yen ai minimi storici non serve nemmeno ipotecare la casa per pagare il conto. Una volta fatta la spesa ci si accomoda volentieri ai tavolini della lounge – zeppa di riviste Anni 60 e 70 – con una tazza di ottimo caffè in mano e via che si comincia a rovistare tra gli acquisti e a viaggiare di fantasia in ogni angolo del Giappone.
shimokitazawa: l’ex villaggio contadino di tokyo oggi è un quartiere alla moda.
Giusto per non sbagliare si comincia con Banana Yoshimoto, scrittrice classe 1964, che non richiede presentazioni, nemmeno in Italia: hanno tradotto il suo Kitchen in oltre 20 lingue, ma in questo caso la cover recita Moshi moshi, un romanzo di formazione che si snocciola tra i vicoli innaffiati di neon e murales di Shimokitazawa, ex villaggio di contadini riconvertito in quartiere hipster-trendy nel centro di Tokyo. Caffè, ristoranti, antiquari, negozi di moda vintage, di vinili e di tutto il necessario per sentirsi cool. Eroina della storia è Yoshie, ventenne reduce da una a dir poco oscura vicenda famigliare, in cerca di appigli per rifarsi una vita. Li troverà nella cucina di un piccolo bistrot di nome Les Liens, dove lavorerà dalla mattina alla sera, e tra gli abitanti del quartiere. Vero, Les Liens è un locale farlocco, ma tra le pagine del romanzo spuntano posti che a Shimokitazawa esistono eccome. Vedi alla voce ristorante Asuka: più giapponese di così non si potrebbe e il menu fisso a 5 500 yen per pranzo significa la bellezza di otto portate. Per digerire passeggiata di due minuti fino al caffè Moldive o Maldive – il proprietario non si è ancora accordato con sé stesso sulla traduzione –, dove “si sente il profumo del caffè tostato […], un profumo tanto buono da sembrare finto”. Qui la nostra Yoshie incontrerà un quasi fidanzato, Aratani. Esiste eccome anche il Mother’s Ruin, mini-locale aperto la sera e decorato con una mega – lucertola che occupa l’intero soffitto. Si mangia e si beve bene mentre gli altoparlanti sparano Johnny Cash, The Grass Roots e un sacco di altra belle cose. Yoshie ne era una frequentatrice abituale, Banana Yoshimoto, chissà. Un altro sorso di caffè e basta un attimo per spostarsi da Tokyo alla Baia di Matsushima (nella realtà sarebbero quasi 400 km a nord): basta farsi condurre da Bashō – vero nome Matsuo Munefusa.
il tempio buddista di risshaku-ji, yamagata.
matsushima bay, tra i grandi panorami giapponesi.
Nato a Ueno nel 1644 da una famiglia di samurai male in arnese, si trasferì a Edo (attuale Tokyo) dove diventò uno stimato maestro di haikai no renga – noti dalla fine del XIX secolo come haiku – e la cui fama si diffuse ben oltre i confini del Sol Levante. Nell’animo del contemplativo Bashō covava silenzioso il virus del viaggiatore: si manifestò nel 1684 e spinse il poeta a lasciare Edo per il Giappone centrale in un cammino di nove mesi da cui scaturí Nozarashi kikō (in italiano, I ricordi di uno scheletro scosso dalle intemperie).
Tre anni dopo Bashō è nuovamente in movimento, questa volta per 11 mesi, con tappe a Suma e Sarashina. Non fa in tempo a rientrare a Edo – siamo nel 1688 – che l’urgenza di partire lo trascina questa volta a nord, in compagnia del suo discepolo Kawai Sora, verso terre poco esplorate. Dai primi 150 giorni fuoriesce il suo apice letterario, Oku no hosomichi (Lo stretto sentiero del profondo Nord), resoconto di viaggio guarnito di delicati inserti poetici:
Dove la marea incontra la laguna
la gru si bagna le zampe
com’è fresco il mare.
“È stato detto e ridetto, ma quello di Matsushima resta il panorama più incantevole di tutto il Giappone […] C’è una miriade di isole: quelle più alte sembrano indicare il cielo con un dito, quelle più basse paiono adagiate, chine sulle onde.”
ritsurin koen (1875): tra laghetti, massi decorativi e collinette, il parco possiede 1400 pini
Così scriveva Bashō, e vale la pena fidarsi, tanto più che oggi le isole sono molto più facili da raggiungere (tre sono collegate da ponti). Per osservarle dall’alto basta salire al Santuario Shiogama Jinja, aggrappato su una collina antistante la baia e raggiungibile con 202 scalini. Un po’più ostica la salita al tempio di Risshaku-ji, più noto come Yamadera, fondato nel lontano 860. In questo caso gli scalini sono 1 015, ma che vista! Quassù Bashō compose un noto haiku:
Silenzio.
Graffia la pietra
un canto di cicale.
“Gli haiku li compongono i poeti come Bashō o i perdigiorno come i mariti delle pettinatrici”, assicura Bocchan, protagonista dell’omonimo libro (pubblicato in Italia col titolo Il Signorino, traduzione del titolo) di Natsume Sōseki.
Scritto nel lontano 1906, dopo più di un secolo è assolutamente perfetto per distrarsi da tutto e da tutti entrando in una dimensione quasi fumettistica. La storia è quella del giovane Bocchan, che un bel giorno si trasferisce da Tokyo, con le migliori intenzioni di questo mondo, a Matsuyama – isola di Shikoku – per cimentarsi con la carriera di insegnante. Gliene capiteranno di ogni, in una sequenza di siparietti tragicomici ad alto rischio di risate in pubblico: fortuna vuole che Tsutaya Books sia munito anche di tavolini all’aperto dove immergersi nella lettura senza dare troppo nell’occhio. La Matsuyama di Bocchan era assai diversa da quella odierna, ma il castello secentesco non è cambiato di una virgola ed è tra i più belli del Giappone. Circondato da ciliegi – andarci in aprile per fioritura da Instagram – promette visioni panoramiche a 360 gradi sulla città e sul mare interno di Seto. La faccenda divertente è che vi si arriva in seggiovia monoposto spaventosamente vintage (ma anche a piedi o in funivia). Spesso citato nel romanzo – per Bocchan era una tappa quotidiana – è la storica sorgente termale di Dōgo Onsen, ancora in piena attività nonostante i lavori di restauro adesso in corso. Lo sfondo però non è più quello di allora, a rubargli un po’ di poesia sono spuntati moderni palazzi in cemento.
la casa da tè kikugetsutei
il castello di matsuyama (1603), sul montedi katsuyama
Da Tokyo partono anche il quindicenne Tamura Kafka e un signore in là con gli anni di nome Satoru Nakata. Non si conoscono e non s’incontreranno mai, tuttavia le loro esistenze s’intrecciano in una catena di coincidenze e avvenimenti mirabolanti che solo uno scrittore come Haruki Murakami poteva escogitare. Niente spoiler ma vista la fama planetaria di Kafka sulla spiaggia è piuttosto difficile non averne sentito parlare: nel 2005 The New York Times lo infilò nella Top Ten dei migliori libri dell’anno. Ciò che non tutti sanno è che l’autore ha disseminato il testo di enigmi e indovinelli, e se collegati l’uno all’altro consentono al lettore una piena interpretazione del romanzo. Per questo Murakami suggerisce di leggerlo più volte. Non fosse che stiamo parlando di un tomo di cinquecento pagine… Si fa prima a seguire le tracce dei protagonisti, che hanno per destinazione la città portuale di Takamatsu – neanche a farlo apposta sempre sull’Isola di Shikoku, ma in questo caso nella Prefettura di Kagawa. Una volta da quelle parti si può passare mezza giornata al Ritsurin Koen, uno dei giardini più appaganti del Giappone, allestito dalla signoria locale – la famiglia Matsudaira – durante il primo periodo Edo. Aperto al pubblico dal 1875 è una poesia di laghetti, colline alberate (1 400 pini), massi decorativi… tutto molto zen. Per una vista del Ritsurin Koen da brochure turistica ci si accomoda nell’antica casa da tè Kikugetsutei, dove sedersi sul tatami a contemplare la perfezione.
La vista più panoramica è invece affidata alla Collina di Hiraiho, il punto più elevato del giardino, le cui sembianze hanno un non so che di Monte Fuji. Poi, visto che siamo pur sempre in mezzo a un popolo di poeti e navigatori, escursione di 30 km fino a Kotohira-gū, santuario shintoista dedito alla protezione dei marinai che si narra sia stato fondato addirittura 2 000 anni fa. Nemmeno qui ci si priva di una bella arrampicata per farci venire appetito: a volerli far tutti fanno la bellezza di 1 368 scalini. Fortuna vuole che Takamatsu sia la patria i Sanuki Udon, noodles a sezione quadrata e di consistenza gommosa, celebri in tutto il Giappone: per non sbagliare, il nome del ristorante da segnarsi è Udon Honjin Yamadaya, al 3186 di Murecho Mure. Ma si è fatta quell’ora, tempo di alzarsi e salutare Tsutaya Books per fare due passi e mettersi magari in cerca delle “campane dell’antica Tokyo”, come nel libro d’esordio di Anna Sherman, da Little Rock Arkansas, ma residente in Giappone da oltre dieci anni.
esterno della sorgente termale dōgo onsen di matsuyama.
nterno della sorgente termale dōgo onsen di matsuyama.
buddha di ueno daibutsu, raffigurante il volto di shaka nyorai, su una collina del parco di ueno, nel tempio kan’ei-ji.
In oltre 300 pagine di letteratura di viaggio e di amore per la Capitale – tradotte in Italia da Ponte alle Grazie –, l’autrice va in cerca delle campane che anticamente facevano da agenda quotidiana per i suoi abitanti, battendo le ore quand’era tempo di svegliarsi, di lavorare, di mangiare o andare finalmente a dormire. Di alcune di esse non vi è più traccia, svanite nel nulla o messe al tappeto dalle guerre, ma Anna Sherman è tenace quanto basta e in più di un caso troverà ciò che va cercando interpellando monaci, studiosi o semplici passanti. Risultato: un itinerario a macchia di leopardo tra i quartieri, i personaggi e gli interpreti della città. Strade, viadotti, piazze, caffè, love hotel, e infine i templi, i veri custodi delle campane. Da quello di Kan’ei-ji (1625), nel parco di Ueno, a quello di Zōjō-ji, all’ombra dei 333 m della Tokyo Tower. Un pensiero conclusivo lo dedichiamo a chi fosse in procinto di partire per Tokyo col desiderio di tenere un diario di viaggio o di spedire cartoline come nei bei tempi andati: 2-7-15, Ginza, Chuo-ku. Altro non è se non il domicilio di Itoya, un’intuizione di 120 anni fa del signor Katsutaro Ito, il quale mai avrebbe potuto immaginare di aver aperto ciò che sarebbe divenuta la più famosa cartoleria del Giappone. Oggi occupa due interi edifici per complessivi 18 piani di penne, inchiostri, matite, pastelli, acrilici, taccuini, agende, biglietti augurali, poster e una miriade di altri articoli meravigliosamente analogici. Basta e avanza per mettersi a scrivere il prossimo best seller.