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Trento Rovereto

Trento e Rovereto: la coppia perfetta

Sardagna, stazione di Sardagna. Non dei treni, intendiamoci che quassù non sono mai arrivati, ma della funivia tascabile che da Trento s’arrampica fino a 600 m d’altezza. Ancora un paio d’anni e l’impianto progettato da Othmar Haas compirà un secolo; niente paura, le cabine sono del 1989 e viaggiano su e giù che è una meraviglia. Quattro minuti sospesi nel vuoto, due passi fino alla terrazza panoramica Busa degli orsi e… abracadabra, si scorge tutta la città e quello che sta intorno. Quello laggiù è il Duomo, stile romanico-gotico, tre navate, pianta a croce latina e 800 anni di storia incellofanati con una serie interminabile di interventi, modifiche, ricostruzioni e restauri (l’ultimo nel 2022). Giusto affianco Palazzo Pretorio, sede del Museo Diocesano Tridentino: vietato trascurarlo perché a prescindere dal credo o non credo si trova alla voce “luoghi da non perdere quando si è in visita a Trento”. Il museo custodisce un florilegio di sculture, dipinti, altari, codici miniati, arazzi, gioielli… che solo per vederli di corsa occorre come minimo un’ora, da aggiungere alla salita sulla Torre Civica, che un paio di scatti della piazza sottostante con la fontana del Nettuno non si negano a nessuno. Parentesi: la torre è stata riaperta lo scorso anno dopo un disdicevole incendio avvenuto nel 2015, con tanto di fragorosa caduta della campana, sostituita con una nuova di zecca della fonderia Grassmayr di Innsbruck. Quella maestosa sagoma che s’intravede sul margine orientale del centro storico è invece il Castello del Buonconsiglio (Museo Nazionale dal 1973, appartiene alla Provincia), residenza dei principi-vescovi di Trento dal XIII secolo fino alla fine del XVIII e su cui si potrebbe tranquillamente scrivere un trattato. Più semplice visitarlo, visto e considerato che si tratta del più importante complesso monumentale del Trentino Alto Adige. Il castello è in verità un collage di edifici di epoca diversa racchiusi da una cinta di mura, dove Castelvecchio (XIII secolo) è il nucleo più antico – dominato da una torre cilindrica – mentre il corpo barocco di fabbrica noto come Giunta Albertiana è un’eredità di fine ’600. Dopo qualche decina di minuti vagando tra logge, cortili, saloni e scalinate affiora la sensazione di trovarsi sul set di uno spin-off made in Italy di Games of Thrones, ma nemmeno su Netflix sarebbero capaci di inventarsi Torre Aquila (accesso dal camminamento di ronda lungo le mura orientali), che al secondo piano cela il “Ciclo dei mesi”, una mirabolante serie di affreschi creati a cavallo tra il XIV e il XV secolo attribuiti al maestro boemo Venceslao. Narra l’immutabile avvicendarsi delle stagioni – prima del cambiamento climatico – tra quotidianità contadina e nobili passatempi.  Manca all’appello solo il mese di marzo, assente giustificato: perì insieme alla scala a chiocciola su cui era stato dipinto, in un incendio che per fortuna risparmiò il resto. Nota bene: la storia della città va ben oltre quella del suo castello; per informazioni chiedere a Cristina Bassi archeologa presso la Soprintendenza per i Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento, un tempo Tridentum. Il sorriso che indossa è quello di chi ama il proprio lavoro, che insieme a quello del suo team ha consentito di riaprire al pubblico il 21 giugno scorso la Villa romana di Orfeo – nella centrale Via Antonio Rosmini –, risalente al primo secolo d.C. Un lavoro lungo e minuzioso, e non potrebbe essere altrimenti: «Quando ho cominciato avevo ancora i capelli biondi!», esclama Cristina con una contagiosa risata, «Sono in cantiere dal 2015, l’approvazione del progetto risale invece al 2003. Il pezzo forte della visita è il settore con la grande sala di rappresentanza, dove si trova un grande tappeto musivo con Orfeo che incanta le fiere». E dire che di questa villa romana nessuno sapeva nulla fino agli Anni 50. Su questo sito esisteva una villa patrizia che fu rasa al suolo insieme a tutto il quartiere durante i bombardamenti alleati del settembre ’45. Nove anni dopo, durante gli scavi per la riqualificazione della zona salta fuori il mosaico, che viene restaurato e musealizzato. Da quel momento il destino del sito assomiglia alla trama di una telenovela venezuelana – rintracciabile con un paio di clic su Google – ma ciò che conta è che la Villa di Orfeo sia di nuovo tra noi.

trento, piazza del duomo, sullo sfondo, casa cazuffi (a sinistra) e casa rella (a destra); al centro, la fontana del nettuno.

Poi via che si passeggia, immergendosi nelle onde di studenti che guizzano tra gli edifici dell’università. Basta mezzo giro dell’isolato per ritrovarsi a Palazzo Paolo Prodi, sede della facoltà di Lettere e Filosofia: inaugurato nel 2012, firmato dallo studio Ishimoto Europe e costato 48 mln di €, ruota attorno a una strabiliante sala lettura che sembra il centro comunicazione di una colonia marziana e, per un istante, vorresti tornare matricola universitaria. Il futuro abita qui, ma ancor di più in quell’area compresa tra la ferrovia e il corso dell’Adige – oggi nota come Le Albere – dove, nel 1927, ebbe inizio l’epopea Michelin. All’epoca, qui a Trento, si pronunciava come si scriveva, aveva le sembianze di un cotonificio (il tessuto era indispensabile per realizzare le carcasse degli pneumatici) e impiegava perlopiù manodopera femminile, più abile di mariti, amanti e fratelli. La presenza maschile si moltiplicò 20 anni dopo, quando ai fili di cotone subentrarono quelli d’acciaio, e negli Anni 70 l’organico raggiunse la bellezza di 1 770 dipendenti, spesso felici e contenti. Avanti veloce, 1999: Michelin, che nel frattempo si pronunciava alla francese, chiude i battenti e au revoir. Che fare? Non nel senso leninista del termine, ma in quello degli amministratori locali. Qui serve qualcuno come Renzo Piano, ragionava il Comune. Detto, fatto. Progettato dal celebre architetto genovese e inaugurato nel 2013, il quartiere Le Albere contribuisce alla mappa di Trento con 300 abitazioni, 18 000 mq di spazi per uffici, 9 000 di negozi e cinque ettari di parco. Vero, il rodaggio è stato lungo, c’è stato qualche passo falso e ci è voluto un pezzo prima che il quartiere si mettesse in moto. Ma l’apertura di due wunderkammer come il Museo delle Scienze (Muse) e quella successiva della Biblioteca Universitaria Centrale (Buc) hanno gradualmente attratto nel quartiere flussi di studenti, turisti, curiosi e infine residenti. Il centro e il traffico non sono esattamente dietro l’angolo di questa oasi circondata dal verde? Tanto meglio, si faranno due passi in più e se ne guadagna in qualità della vita. 

il castello di rovereto, edificato nel XIV sec. dai castelbarco nei pressi del torrente leno

il rione s.tommaso di rovereto.

A 20 km più a sud, in quello spicchio di Rovereto dove il torrente Leno si getta nelle braccia dell’Adige, si è fatta ora di pranzo. Si scende dalla bici, ci si siede su uno sfondo da cartolina, si ordina un ricco spuntino e ci si gode la vita. Perché son passati da un pezzo i tempi d’oro delle aree di sosta autostradali – Autogrill non si può dire, che è un marchio registrato – quelli di Umberto Tozzi, per intenderci: “Sono a Roma Nord, chiamo a gettoni…” Oggi viaggiano tra i primi posti nella hit parade dei luoghi più malconci e malinconici d’Italia. C’è chi vi dimentica la moglie, chi addenta una focaccia di polistirolo, chi beve intrugli spacciati per caffè. Il Wi-Fi? Non scherziamo. In Trentino hanno capito tutto, e si sono inventati i “bici grill”, goduriose aree di sosta gourmet (ma anche di servizio, di noleggio e di supporto/riparazione) per viaggiatori a due ruote lungo i 440 km di piste ciclabili che corrono per tutta la provincia. Un applauso. Poi di nuovo in sella, che il Mart non può attendere. In teoria l’acronimo sta per Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, ma in pratica Rovereto vince due a uno perché ospita due delle tre sedi, inclusa quella principale in corso Bettini 43, progettata dall’architetto ticinese Mario Botta in collaborazione con l’ingegnere roveretano Doc Giulio Andreolli, forse meno celebre ma altrettanto essenziale per la riuscita del progetto. Inaugurato nel 2002 con l’idea di unire sotto lo stesso tetto (iconico, a cupola, in vetro e acciaio) le raccolte dei comuni di Trento e Rovereto, della Provincia Autonoma e l’arte futurista di Fortunato Depero (vedere p. 154), il museo si prende cura di oltre 15 000 opere (Pistoletto, De Chirico, Manzoni, Boetti…) e si cimenta periodicamente con  mostre temporanee ed eventi che spaziano anche oltre le arti visive. Chi fosse di passaggio in Trentino nei prossimi mesi potrebbe allora approfittarne per godersi le personali di Mario Reviglione, Stefano Di Stasio, Aurelio Bulzatti e del duo Leonor Fini e Fabrizio Clerici. A fine visita (calcolare come minimo due ore) non resta che planare felici, contenti e con qualche mattoncino di cultura in più, sulle poltrone del Bistrot dello chef stellato Alfio Ghezzi e concedersi un Mart Burger: carne salada, crauti rossi, maionese, cipolle stufate, foglia di spinacino e formaggio trentino Casolet. Il tutto, in un panino a forma di cupola museale. Olé! Con la pancia sorridente ci si perde nel groviglio dei vicoli acciottolati del centro storico per ritrovarsi dopo dieci minuti di fronte al civico 38 di via Portici, l’indirizzo della Casa d’Arte Futurista Depero. Futurista in tutto e per tutto (fu ideata nel ’57 dall’artista medesimo, in collaborazione col Comune), dai mosaici ai mobili, dalle tarsie in panno ai pannelli dipinti, la “casa” racconta vita, morte (1960) e soprattutto i miracoli di questo Fortunato pittore, scultore, poeta, “motorumorista”, designer, illustratore, grafico pubblicitario, scenografo e costumista ma soprattutto genio della Val di Non

scorcio d’interni di casa depero, a rovereto

Trento Rovereto

trento, piazza del duomo

Dopo una vita artistica a dir poco prolifica che lo condusse fino a New York (copertine per Vogue, The New Yorker, Vanity Fair…), al momento di abbandonare questo pianeta chissà per quale altra dimensione, Depero lasciò in eredità alla città di Rovereto una miniera futurista di circa 3 000 opere, parte delle quali in mostra qui. Per placare l’insostenibile desiderio di portarsene una a casa, viene in aiuto il piccolo store del museo, con libri e cataloghi a lui dedicati. Non basta: un itinerario deperiano (circa tre ore di cammino) dentro e fuori la città si trova in formato mappa – disegnata dagli studenti del Liceo artistico a lui dedicato – presso gli uffici del Turismo Rovereto e della Vallagarina. Tra le tappe dell’itinerario c’è un monumentale agglomerato di mura e torrioni proveniente dal XIV secolo imbullonato su un’altura della città: è il castello di Rovereto, il cui look odierno è la somma di secoli di mutazioni – veneziane in primis –, distruzioni, ricostruzioni e restauri, questi ultimi ancora in corso. Chi avesse in casa un vecchio album di francobolli può cercarlo nella collezione dei “castelli d’Italia” degli Anni 80 (valore 500 lire), è quello con lo sfondo marrone. L’interno del forte è dal 1921 appannaggio del Museo Italiano della Guerra, ma gli allestimenti sono per fortuna molto più recenti e meritano  attenzione. Sono distribuiti su tre livelli e raccontano con dovizia di particolari (anche con l’aiuto di un’audioguida gratuita) tutto ciò che non si deve dimenticare della Prima guerra mondiale. Nell’itinerario deperiano non compare invece il Teatro Zandonai, ma è cosa buona e giusta fargli visita alla prima occasione utile, a prescindere da ciò che va in scena. Architettato da Filippo Macari, apparve a Rovereto nel 1783 e non sempre ebbe vita facile, tanto che nel corso della Grande Guerra fu degradato a caserma, magazzino e addirittura stalla. Uno scempio cui si pose fine nel 1924, ma l’ultimo restauro è assai più recente (2010-2013) e il risultato avrebbe strappato un gridolino di gioia anche a Riccardo Zandonai (1883-1944), il compositore roveretano cui il teatro è intitolato. C’è da giurarci che sarebbe piaciuto anche a Wolfgang Amadeus Mozart, ma si paventò in città con 15 anni d’anticipo sull’apertura del teatro. 

università di trento: il palazzo prodi, sede della facoltà di lettere e filosofia.

Per la sua prima performance pubblica in Italia (dopo un concerto a porte chiuse il giorno di Natale a Palazzo Todeschi-Micheli) il 26 dicembre 1769, fu scelta allora la chiesa quattrocentesca di San Marco, uno dei simboli della Rovereto “veneziana” – il leone della Serenissima è ancora acquattato sulla facciata. «Abbiamo trovato raccolta nella chiesa tutta Rovereto, tanto che fu necessario farci precedere da alcuni robusti giovani che ci aprissero un passaggio per salire alla cantoria: e anche qui si ebbe da fare una decina di minuti per giungere fino all’organo, ché tutti volevano esserci vicinissimi» raccontò il padre Leopold in una missiva dell’epoca alla moglie. L’organo suonato da Mozart è stato sostituito con un altro, ma basta sedersi sotto le volte affrescate della chiesa, socchiudere gli occhi, accendere l’immaginazione e… musica fu

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