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Budapest la capitale ungherese in cerca d’autore

Quasi vent’anni fa, Budapest era la tappa conclusiva di un viaggio on the road nell’Europa dell’Est. Un pellegrinaggio sovreccitato e scalcinato di chi scrive, più altri tre amici squattrinati e la prospettiva di uno sproposito di chilometri. Un interra il sull’asfalto con un’auto presa a noleggio, da parcheggiare davanti a ostelli di periferia. La benzina aveva altri prezzi, le mappe erano di una carta fragile, la capacità d’adattamento senza confini. La capitale dell’Ungheria, tuttavia, era stata un traguardo non entusiasmante. Senza mezzi termini, una delusione: dimessa e losca, tra bellezze annerite addossate a vialoni infiniti, trasandati, sporchi. Una popolazione poco accogliente verso un gruppo di giovinastri molesti, venuti da lontano. L’inglese, salvo rare eccezioni, non pervenuto; in giro, un senso generale di decadenza che non era abbandono, quanto una resa di fronte all’immutabile. Circa vent’anni dopo, con un carico di pregiudizi ingombranti nel bagaglio, è tempo di ritornare. E ritrovare, intatti, quei fantasmi: la sera tardi, dall’aeroporto verso il Danubio, i vialoni sono ancora lì, lugubri e fané, con addosso la malinconia di un giorno di pioggia. Eppure, poco è come allora. L’eterno ritorno non è che un difetto di persistenza della memoria: la mattina dopo, sotto un sole incerto e intermittente, Budapest si svela stravolta, un po’ sventrata, scossa da un’agitata metamorfosi. Attraente perché indefinibile, misteriosa in quanto camaleontica. O così appare Pest, la metà pianeggiante a est del Danubio, quella che ospita il gigantesco Parlamento simbolo del Paese. L’altro simbolo, la foto gemella preferita dai turisti, il Ponte delle Catene, c’è ma non si vede e nemmeno s’intuisce. È in restauro, occultato in uno scatolame di cantiere e impalcature che obbliga a deviazioni, giri lunghi e inversioni di marcia, sbuffi di delusione per chi non s’aspettava di trovarlo bendato. Sarà pronto, pare, nel 2024; fa parte del corposo elenco di progetti che stanno ridefinendo la fisionomia, la viabilità, l’identità della città. I maligni sussurrano che la solerzia è in realtà furbizia: l’Huxit, la Brexit ungherese, non è stato un termine tabù negli anni passati; il timore, viste le perenni schermaglie con Bruxelles rinfocolate dall’ennesima vittoria di Viktor Orbán alle elezioni di aprile, era quello di veder svanire i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea. Tanto vale sbrigarsi e spenderli il prima possibile, finché i rubinetti scorrono: un’ansia da esaurimento del bonus ristrutturazioni applicato a un mastodontico progetto di rinnovamento urbano.

budapest

la piazza szervita e gli edifici art nouveau.

la basilica di S. Stefano sullo sfondo della pedonale via zrínyi.

il castello vajdahunyad

Di distretto in distretto

Per fortuna il sindaco Gergely Karácsony è un fervente ecologista, non ha la patente e nemmeno una spiccata simpatia verso gli automobilisti. Ha rubato loro corridoi d’asfalto per consegnarli a biciclette e monopattini, scatenando l’ira di chi non apprezza troppo spostarsi su due ruote o ha bisogno di coprire percorsi lunghi, impensabili a pedali, prima di arrivare a destinazione. Così si spiega e si risolve l’enigma della nuova Pest, che attorno ai suoi simboli, ai tanti edifici Art Nouveau, in una mescolanza di antico e contemporaneo, sta tirando su il suo futuro. E già lo intravede, rimettendo in sesto vecchi palazzi o edificandoli da zero, in periferia come in pieno centro. L’esito produce accostamenti e sovrapposizioni, talvolta incuranti dei contrasti tra gli stili. «Sicuramente la città è diventata un buon posto dove capitare e vivere. I trasporti pubblici funzionano bene, le tendenze occidentali arrivano quasi subito. Come l’aumento del costo della vita, nonostante la popolazione sia in continuo decremento», racconta Kristóf Vince Búr, la nostra abile, giovane guida (per contattarlo, il suo account Instagram è @herr.bur). Non è propagandista né celebrativo, indica i pregi e fa luce sulle ombre di una meta inondata da un vivace subbuglio. Con lui tracciamo la mappa dei quartieri in crescita, per andare oltre le tappe ovvie, l’elenco delle cose da fare a portata di Google: «Il settimo e l’ottavo distretto erano zone piuttosto malfamate, ora stanno vivendo una profonda fase di gentrification. Ristoranti, caffè, negozi aprono dappertutto e un gran numero di expat si sta spostando in quelle aree». L’impronta della presenza ebrea si fa sentire: il settimo distretto era il ghetto, dove vanno forte i ruin pub, i locali sorti tra mura scrostate e sventrate, voragini e altre rughe edilizie. Ce ne sono di svariati, e alcuni includono mercati delle pulci e piccoli ristoranti, ma non sono ritrovi per alternativi dal look punk, anzi sono frequentati (fin troppo) dai turisti che li hanno scoperti e rilanciati su Instagram. Per qualcosa di più vero ha senso spingersi verso il tredicesimo distretto: non ci sono monumenti, ma le vibrazioni giuste di un intarsio di vie in fioritura, tra librerie, panetterie, terrazzini affacciati sull’ipnosi del viavai quotidiano. Una generale leggerezza, che forse è il complimento più centrato da fare alla Pest in trasformazione, che tuttavia conserva improbabili e passatisti monumenti laici, come il memoriale dedicato a Michael Jackson, nella piazza davanti all’hotel Kempinski, dove la superstar soggiornò per tre volte, nella stessa suite, da cui si affacciava per benedire i fan in delirio. Un universo di lustrini rispetto all’ottavo distretto, proprio quello in cui ero incappato durante la mia prima infelice visita. Era abitato da senza fissa dimora e ospiti non proprio raccomandabili. Oggi sono arrivate orde di studenti e hipster, le vie pedonali, vasti ritagli di verde. Qui risiede la Pest giovane, che ha deciso di non emigrare: «Come gli altri Stati dell’ex blocco sovietico, affrontiamo il problema della fuga dei cervelli. I Millennial che ne hanno il desiderio e se lo possono permettere, lasciano il Paese almeno per andare all’università. Il problema è che molti non ritornano. Per fortuna, chi lo fa, sta mettendo a frutto l’esperienza e le conoscenze accumulate altrove e apre gallerie, negozi di design, attività ricche d’inventiva», dice la nostra guida, che a sua volta ha studiato all’estero, Italia inclusa. La capitale dell’Ungheria si nutre dei talenti che scappano; poi si pentono e fanno marcia indietro. Un tratto comune, un problema molto diffuso tra i ragazzi e gli adulti è il consumo di alcol: secondo le statistiche e uno spirito minimo d’osservazione, si colloca tra i livelli più elevati al mondo. Il risvolto positivo è che la bar culture è parecchio radicata e i prezzi, dai cocktail alle birre, sono di gran lunga sotto gli standard europei. Quello negativo è che quando scende la sera, specie nei fine settimana, è opportuna una cautela supplementare per non imbattersi nelle attenzioni di qualche gruppo alticcio. Se Buda è l’esatto contrario, (Per conoscere Buda leggi anche: Tornando a Buda, nostalgia della Mitteleuropa) è la pace e la quiete
il lato cheto di Pest corrisponde al rinnovamento del frastagliato tappeto verde della città, il grande parco pubblico che parte dietro l’imponente Piazza degli Eroi. Qui sta prendendo vita il progetto Liget, definito dai suoi fautori “il più grande e ambizioso sviluppo culturale urbano d’Europa”.

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l’interno del mercato centrale

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i bagni széchenyi

biodóm, il nuovo zoo di pest

l’esterno della house of music

Prove di rinascita

Proclami altisonanti a parte, Liget prevede una rete di centri espositivi e sportivi, giardini e sentieri, gallerie e parchi giochi, uno zoo, aree a disposizione della città e dei visitatori. Oltre a numerose perle di design, come la Millennium House, aperta poco prima della pandemia. Si tratta del restauro di un edificio di fine Novecento, convertito nella sede di una mostra che ripercorre la storia dell’area, affiancata da un ristorante e un centro eventi; recentissima è invece la House of Music, inaugurata a gennaio e firmata dall’architetto giapponese Sou Fujimoto. Il soffitto lascia entrare pezzi di cielo: l’idea è quella di annullare i confini tra naturale e artificiale, tra quanto appare sorto in maniera spontanea e quanto è stato edificato dalla mano dell’uomo. Nei dintorni c’è pure un castello, meno esaltante di quello sulla collina, ma con un lago adorato dalle coppiette e una pista di pattinaggio per sfrecciare sul ghiaccio in inverno. Con il caldo e con il freddo fanno invece il pienone i Bagni Széchenyi lì nei paraggi, con le vasche esterne vaporose che paiono uscite da un film di Wes Anderson, sebbene i locali tendano a evitarle per il sovraccarico di turisti e l’olezzo sulfureo imperante. Un’alternativa meno mefistofelica, più chic? Sono i Bagni Gellért di Buda, altro complesso termale, stavolta a ridosso del fiume, poco dopo il Ponte della Libertà, meno monumentale e meno famoso del Ponte delle Catene. I Bagni Gellért sono un esempio di Art Nouveau con l’aggiunta di mosaici colorati e maioliche che gli sono valsi numerose apparizioni su riviste e tv, esempio ultimo di una città che vuole ridefinirsi senza voltare le spalle a se stessa, né tradire la sua eredità o le sue geometrie. Perché sebbene decadenti, i bagni e i vialoni di raccordo tra un distretto e l’altro rimangono un indice di autenticità, più dei palazzi di vetro e acciaio degli archistar, dei caffè fotocopia di Parigi, dei club sorti a imitazione di quelli che potresti trovare a Berlino, delle boutique tali e quali a quelle di Milano, dei ristoranti pretenziosi quanto Los Angeles o Dubai, giusto con un filo appena di understatement supplementare. Nella sua estetica stropicciata, nel vecchio che sopravvive al nuovo o a vari strati di make-up edilizio, Budapest è ancora quella signora scontrosa e struccata di vent’anni fa. Accogliente con diffidenza, vitale mantenendosi discreta, ma respingente con chi si arrende alla prima impressione e non si impegna a decifrarla. E con chi la fraintende, senza capire quel suo essere nostalgicamente all’avanguardia, per cui il bello corre parallelo al piacere di andarselo a cercare.

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