WorldCittà 15 minuti in Italia, tra mito e realtà

Città 15 minuti in Italia, tra mito e realtà

Se 15 minuti vi sembran pochi, preparatevi: il mix di e-commerce e pandemia ha innescato un’accelerazione al nostro stile di vita a caccia di trasferimenti intraurbani sempre più rari e ridotti. Target dichiarato: città meno inquinate, più vivibili, più partecipate (per le istruzioni d’uso, si veda l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite). Effetto non troppo collaterale: portare il più velocemente possibile le merci sotto casa o direttamente sul pianerottolo, anche perché in centri commerciali e affini sembriamo proprio volerci andare sempre meno: «È il punto terminale di una crisi dei classici ipermercati peri o extraurbani e dei mall iniziata già negli anni 2000: declinano insieme alla natalità e al modello più standard della famiglia, alla quale soprattutto nelle grandi città si sostituiscono single o separati con figli e nuove forme di convivenza», spiega Fabio Fulvo, responsabile settore marketing, innovazione e internalizzazione di Confcommercio-Imprese per l’Italia.

Tutti parlano della Città 15 minuti: ma di cosa si tratta?

Così, da quando è esplosa la pandemia è tutto un parlare di “Città in 15 minuti”, slogan che riassume uno stile di vita teorizzato dallo storico Carlos Moreno, professore alla Sorbona di Parigi, applicato per la prima volta dalla sindaca della capitale francese Anne Hidalgo promuovendo nei quartieri servizi policentrici e facilmente raggiungibili a piedi entro il raggio di un chilometro. Basta leggere e subito l’immaginazione corre a metropoli ad arcipelago, con isole simili a borghi o corti rinascimentali, punteggiate di giardini popolati da runner, yogi e crossfit addicted, dove bambini ancora in età da latte scorazzano soli, la spesa si fa dalla nonnina del mercato e lo shopping è tailor made in boutique dove augmented dealer armati di tablet inoculano in rete agenti intelligenti capaci di scrutinare il nostro inconscio meglio del nostro analista. Counselor, peraltro, che vive al piano di sotto, così come vicini sono il pediatra, il notaio, gli sportelli comunali, la biblioteca e l’ufficio, dove andremo il giusto, tra una call casalinga e l’altra, sbrigata in lingerie distesi su di una chaise longue.

> Leggi anche: Piste ciclabili in Italia: quali sono le città più bike friendly

Ma la realtà è ancora diversa 

Basta schioccare le dita, però, ed eccoci tornare alla realtà, dove, se non viviamo in un centro storico o giù di lì, in 15 minuti a malapena incontriamo una pompa di benzina, un parcheggio, un capannone o un sexy shop; e dove per l’Istat soltanto un italiano su 10 riesce a recarsi a piedi al lavoro, mentre ben il 75% sale in auto, il 21% ricorre ai mezzi pubblici e soltanto il 4% imbraccia bici o motorino, schivando ogni santo giorno mezzi meccanici intenti ad abbatterlo per sabotare la causa della svolta strombazzata verso la città green. Per capire cosa ci attende, insomma, tra l’utopia annunciata e la distopia in cui più spesso viviamo, nulla è più affidabile che guardare cosa accade lungo la strada che percorriamo per riempire il carrello.

I negozi tra 10 anni – negozianti vs consumatori

Resteranno solo consulenti

10%
7%

Diventerà tutto online

14%
27%

Esisteranno solo quelli in grado di coinvolgere

76%
66%

Parola d’ordine: “retailtainment”

In attesa della Città in 15 minuti, cominciamo ad annotarci che i negozi, più che altro… chiudono. Tra il 2012 e il 2020, in Italia, secondo Confcommercio, ne sono spariti 77 000, con una riduzione del 15% nei centri storici. Le chiusure riguardano marchi e negozi medi, soprattutto, a metà strada tra low cost e lusso. La strage definitiva l’ha fatta il lockdown, nell’abbigliamento, ma anche nell’elettronica di consumo. H&M, per esempio, ha detto addio a ben 350 negozi, 8 in Italia. Inditex ha cancellato 1 000 punti vendita in tutto il mondo. Disney ha chiuso tutti i 15 negozi sul suolo italiano. Carrefour ha annunciato 1.800 “esodi volontari”… Il motivo della débacle è banale e si pronuncia e-commerce. Secondo l’Osservatorio e-commerce del Politecnico di Milano, nel 2020 in Italia le vendite online sono cresciute del 45%. E per il Censis il 71,7% delle famiglie durante il lockdown ha fatto acquisti online.

I marchi mass market, quindi, puntano dove possibile a integrare l’inventario della merce in magazzino con quello nei negozi in tempo reale, con ordini che ormai partono sia dai magazzini sia dai negozi, capaci però – questi ultimi – di offrire servizi aggiuntivi. Zara, per esempio, ha lanciato una app per verificare la disponibilità in negozio, prenotare il camerino, acquistare il capo e pagarlo via telefono, zero coda alla cassa. E l’offerta si rinnova a ritmo di carica: i nuovi modelli arrivano in negozio ogni due settimane in sole 48 ore. Altro che ritorno alla stagionalità, come romanticamente auspicato da Giorgio Armani nel primo lockdown: per rifarci online il guardaroba, potrebbero bastarci 15 minuti, ma saremo anche spronati ad aggiornarlo ogni 15 giorni. Al contempo, saremo trasformati in “misuratori misurabili” della performance dei commessi. Oltre che magazzini just in time, i negozi dovranno diventare investimenti in comunicazione, sebbene non per forza a botte di affitti da 5/10 000 al mq alla portata della maison metropolitane del lusso.

È tempo di retailtainment: parola che pare evocare una terapia di riabilitazione per commessi gaming addicted, ma che in realtà significa una strategia di vendita che coinvolga il cliente ludicamente. I negozi diventano così le antenne fisiche e digitali del negoziante e delle marche, capaci di classificare noi e valutare le loro performance di vendita e impatto mediatico a forza di clic e page view. Vita dura, insomma, per il retailer, che deve confrontarsi, anche grazie allo standard di comfort imposto dall’on-line, con un consumatore sempre più… intrattabile: «Viziato, impaziente, immerso in un flusso di alternative e ranking istantanei e multicanale. È disposto ad aspettare soltanto se l’attesa gli fa status tramite la personalizzazione del servizio», spiega Massimo Volpe, co-founder e Ceo di Retail Hub, che offre servizi di monitoraggio, consulenza e formazione a dealer e manager. O scendiamo noi dall’analista al piano di sotto, insomma, oppure, ci mandiamo loro.

Per evitare il “tso”, si scommette sulla velocità. E si sviluppa il magazzino diffuso, la logistica reticolare, che distende le sue trame di quartiere in quartiere approfittando di fallimenti pandemici e progetti di rigenerazione. Spiega Volpe: «Realtà come Gorillas o Daje puntano su consegne in 10 minuti». L’ascesa dei supermercati online on-demand è in continua crescita e solo in Europa il quick commerce alimentare ha raccolto oltre 800 mln di €. In prima linea proprio Gorillas, la società con sede a Berlino fondata nel 2020, approdata in 12 mesi in 8 mercati grazie a oltre 2,5 mln di ordini con un tempo di consegna medio di 10,8 minuti, che significano più di 100 warehouse in cui lavorano oltre 10 000 dipendenti. È a loro che finiranno per rivolgersi anche le Esselunga, Coop, Eurospin, VéGé… Ma tutta la logistica, non soltanto quella alimentare, tende a diffondersi e a spostarsi in prossimità del cortile di casa nostra. Lo dimostravano già, tra l’altro, la collaborazione tra Poste Italiane e Amazon e le voci dei mesi scorsi, sebbene smentite, sull’interesse per Esselunga da parte di Jeff Bezos. Ma anche la nascita di partenariati pubblico-privato tra Comuni e reti locali di commercianti, chiamate distretti commerciali, alle quali il cittadino è invitato e sollecitato a connettersi anche via app per restare aggiornato su prodotti, promozioni, iniziative.

«È una delle strategie con cui il piccolo commercio, sotto la regia pubblica, reagisce alla sua crisi. Ma anche, al contrario, un’occasione e un’opportunità per riqualificare aree in semiabbandono o abbandono delle città attraverso la difesa e rinascita del commercio di prossimità», spiega Luca Tamini, professore di Urbanistica del Politecnico di Milano e responsabile scientifico di Urb&Com Lab del dipartimento di Architettura e Studi Urbani. Accade, in Italia, soprattutto in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto.

Benvenuti a Disneyland

Gli spazi lasciati vuoti, comunque, tendono ancora ad aumentare. Di fronte alla strategia multicanale, secondo l’azienda di servizi immobiliari Jones Lang LaSalle, il 25% dei vecchi spazi nei mercati maturi occidentali è obsoleto. Ma qualcuno ne sta già approfittando: anzitutto i dominus degli ipermercati stessi, che ne inaugurano nei quartieri di più piccoli, più cool e aperti 24/7. Ma non solo. Amazon ha aperto una catena fisica negli Stati Uniti, che secondo quanto riportato dal Wall Street Journal è un terzo rispetto alla media dei mall (immensi) americani. Specialità: marchi di alta qualità e marchio Amazon nell’abbigliamento, nei casalinghi e nell’elettronica. «L’obiettivo condiviso anche dall’altro big player, la cinese Alibaba, è mettere fuori mercato le storiche catene di rivenditori fisici come Wall-Mart, consapevoli che l’e-commerce è vicino al suo limite di penetrazione del 25%», commenta Fulvo.

La storia del centro commerciale non è finita

Ma è davvero finita la storia del centro commerciale, iniziata a Parigi nel 1852 con Le Bon Marché e in Italia, a Milano, nel 1880, con Alle città d’Italia, ribattezzato nel 1920 da Gabriele D’Annunzio con il visionario la Rinascente? Non proprio. Illuminante è il caso del progetto di centro commerciale da oltre 155 000 mq della australiana Westfield, contro una superficie media italiana di 25 000 mq, a Segrate, alle porte di Milano, che avrebbe dovuto strappare a Il Centro di Arese e all’Oriocenter di Bergamo il primato di più grande mall d’Italia, con una formula da entertainment park guidata dalle Galeries Lafayette parigine: 300 negozi, 50 boutique, 50 ristoranti di lusso, un multisala. Ma pare rimasto sulla carta dopo la pandemia, lasciando dietro di sé un vuoto urbano ormai da edificare e il progetto di Cassanese Bis, che raddoppia la omonima provinciale. Che cosa avesse suggerito che ci saremmo precipitati da ogni angolo della Pianura Padana alle Galeries Lafayette di Segrate non è dato sapere. La via dell’entertainment park, però, sembra la sola a poter ritardare l’apocalisse dei mall, grazie a dimensioni inferiori di almeno un ordine di grandezza, radicamento in città e spinta di un entertainment brand. «L’esempio è l’Apple Store nel centro di Milano: un negozio, ma anche uno spazio che dialoga con la piazza dove passeggiare, sedersi, mangiare, intrattenersi», spiega Fulvo. Il popolo del carrello più cittadino, così, si distribuirà tra chi prediligerà gli augmented dealers sotto casa dal volto tra il vintage e il green e chi le mini-Disneyland di prossimità a misura di turista. A tutti gli altri, invece, ancora i più, non resterà che continuare a pendolare in auto attorno ai vecchi ipermercati. Spingendo la loro notte più in là.

Follow us

Iscriviti alla nostra Newsletter